La mistica americana e la scomparsa di Big Man, anima della E Street Band

Stefano Pistolini

La mistica della E Street Band, che sabato scorso ha perduto il suo secondo pezzo pregiato con la dipartita del sassofonista Clarence Clemons, è il vero oggetto di lutto, nostalgia, mancanza e rievocazione, attorno al quale gravita la malinconia espressa in queste ore da ogni finestra di comunicazione. E' la mistica dell'amicizia maschile, della gang di giovani uomini irrequieti e affamati di tutto, in costante movimento e in perenne caccia di qualcosa che faticano a definire.

    La mistica della E Street Band, che sabato scorso ha perduto il suo secondo pezzo pregiato con la dipartita del sassofonista Clarence Clemons, è il vero oggetto di lutto, nostalgia, mancanza e rievocazione, attorno al quale gravita la malinconia espressa in queste ore da ogni finestra di comunicazione. E' la mistica dell'amicizia maschile, della gang di giovani uomini irrequieti e affamati di tutto, in costante movimento e in perenne caccia di qualcosa che faticano a definire. E' la mistica dell'America interpretata senza la coscienza che esista una possibile diversità da essa, sterminata tavola da biliardo lungo la quale rimbalzare da un angolo all'altro e ovunque sentendosi a casa propria. E' la mistica della reciproca fiducia, della confidenza assoluta, dell'intimità orgogliosa e passionale e tutta la possibile inespressa, sana omosessualità maschile, mortificata dall'espressione “cameratismo” e  che trova requie nell'idea dello stare insieme sempre e comunque, anche a oziare, scrutando la linea dell'orizzonte in attesa di nuove avventure. La E-Street Band ha incarnato tutto ciò in un'America pre-tecnologica, non ancora connessa, sincronica, appiattita, prevedibile, domata. Le strade di New York City, le lande automobilistiche del New Jersey, i nightclub per squattrinati sull'Atlantico incacchiato, produssero questa lega di dubitabili gentiluomini che conteneva tutto ciò che gli serviva per sentirsi invincibile: aveva il pirata e aveva il professore, soprattutto aveva il capo con la visione e il suo indistruttibile uomo di fiducia, hollywoodiano in quel corpo enorme e nero, muscoloso e rassicurante, tra Mister T e Shrek.

    Clemons non è stato il più grande sassofonista del mondo. Con lo strumento, che teneva tra le mani come un giocattolo, faceva cose semplici ma le faceva convinto fossero quelle giuste e le faceva al momento opportuno. E' quella che si chiama consapevolezza del sapere dove farsi trovare e a che ora. Un dono innato, se è vera la leggenda secondo la quale lui e il Boss si riconobbero fratelli prima ancora di parlarsi, quella sera di tempesta in cui Springsteen suonava in un localaccio e Big Man decise di andare a vedere e quando aprì la porta il temporale entrò con lui e la band smise di suonare, ma lui salì sul palco e disse che era lì per fare la sua parte e Bruce gli rispose di accomodarsi e un istante dopo era come si fossero conosciuti dalla nascita.

    Parabole troppo belle per impegnarsi a smentirle,
    perché conta la loro descrizione psicologica – i desideri, in sostanza – più della veridicità. Del resto l'idea su cui Springsteen ruminava, nella sua istintiva valutazione dello show business, era quella di creare con le sue forze il gruppo perfetto, un esercito delle dodici scimmie al suo servizio e artisticamente autonomo, perciò onnipotente – ben prima, per esempio, che gli passasse per la testa l'idea balzana di invitare una donna – la sua donna – a far parte della ghenga. Di sicuro Clarence riempiva uno spot che mai avrebbe potuto essere interpretato meglio. Diventava il frate Tuck del Robin Hood cacciatore di Chevrolet, il compare che ti protegge, ti copre le spalle e ascolta i tuoi mugolii, la montagna di carne sulla quale il Boss adorava appoggiarsi sul palco, mentre quello, infagottato in un temibile completo confetto mollava l'ennesimo assolo sulla scala maggiore. A lui piaceva sbandierarlo: niente di meglio che un amico vero.



    La differenza tra i migliori Village People
    e la E Street Band era solo di preferenze sessuali e orientamenti ritmici: la celebrazione era la stessa, e quando il Boss, nella sua tardiva quanto intensa evoluzione culturale, lascerà la rappresentazione per la riflessione, quando il suo magnifico narcisismo poetico e ormonale si venerà di dubbi, solo a quel punto la banda comincerà a sfaldarsi, le calvizie si faranno visibili, gli acciacchi presenteranno il conto (come quelli che rapidamente, hanno distrutto il buon Big Man) e le reunion si diraderanno. Queste, in fondo, sono storie antiche, se si ragiona sui parametri storici del rock. Storie che scaturiscono trent'anni fa e si trascinano per i successi quindici, salvo cominciare a impallidire e a perdere forza. Però una delle icone semplici, pure, formative del rock elettrico e analogico è proprio quella di questi due uomini, uno di fronte all'altro, facendo ciò che riesce loro meglio, ovvero trasformare in roboante melodia la propria energia sessuale (nonché la scoperta che la musica poteva trasformare il piacere in lavoro, una volta codificata come linguaggio rituale e condiviso). Clarence Clemons è stata una delle più riuscite maschere di questo teatro popolare di fine Novecento. Raggiunge tra i più il compagno di palco Danny Federici, e del Boss si racconta sia rimasto sbigottito alla notizia. Del resto le sue depressioni non sono più un mistero. Ed è un dato di fatto che il passato, un morso alla volta, si stia mangiando il presente, ribadendo che la vera Balena Bianca è lui, il tempo che passa e che ribadisce che, per quanto le cose cambino, inesorabilmente, finiranno.