Bob Dylan sul palco del 37th AFI Life Achievement Award, l'11 giugno 2009 in California (Foto di Kevin Winter/Getty Images per AFI) 

La pietra rotola ancora. Bob Dylan è di nuovo in tour

Michele Silenzi

Una rivolta permanente contro l’assurdità dell’esistenza e del destino. Dylan mostra in una manciata di immagini l’evoluzione della nostra civiltà che precipita in una stasi deprimente

La pietra di Bob Dylan non smette di rotolare. Il suo Neverending Tour riparte da Milwaukee il 2 novembre. L’opera che ha reso anche la sua vita un’opera d’arte è proprio questo tour che non ha fine, una sorta di supplizio di Sisifo autoinferto, frutto di un’insondabile necessità che da oltre trent’anni lo porta a fare più di cento date all’anno ripetendo praticamente ogni sera lo stesso identico rito (con pochissime variazioni di scaletta) dalle grandi città fino alle più sperdute two horses town.  

 

Ottant’anni e una pandemia non sono bastati a indicargli la via della pensione. Su di lui nulla hanno potuto neppure le accuse di molestie che a fine agosto l’hanno colpito. Accuse per fatti datati 1965. Dylan aveva ventiquattro anni ma era già lui, già l’uomo che teneva la mano sul polso di un’intera generazione, o almeno così viene definito nel documentario “No Direction Home” che gli ha dedicato Martin Scorsese nel 2005. Quel “No direction home” è un celebre verso di “Like a Rolling Stone”, che si trova in apertura di quello che è senza dubbio uno degli album più significativi della produzione dylaniana e che usciva proprio in quel 1965 in cui si sarebbero svolti gli eventuali, preistorici misfatti denunciati. 

     

   

“Highway 61 Revisited” prende il nome da una strada che attraversa da nord a sud gli Stati Uniti, una strada che inizia e finisce in quel nord da cui Dylan fa ripartire il suo interminabile tour. È l’album in cui Dylan sembra più profondamente ispirato da quella cultura beat (già dal titolo, una strada che attraversa gli Stati Uniti, on the road) di cui era figlio e costola e che rapidamente ha superato per ampiezza e profondità poetica. I beat sono stati precursori della rivolta libertaria degli anni 60, di quella necessità di dare un senso a un mondo che appare sotto la veste dell’“assurdo” descritto da Camus nei suoi libri che hanno inaugurato l’esistenzialismo del secondo dopoguerra. Personaggi come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, ma anche William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti e altri svolsero il ruolo di anticipatori e araldi di quella rivolta culturale e sociale che culminerà nel ’68. Ed è proprio in quel momento che nascono i vati più compiuti dell’epoca, che non erano più gli scrittori ma i singer-songwriters.  

   
I Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, più di tutti gli altri, ma molti seguiranno le loro orme, formeranno in modo vastissimo e mai accaduto prima le coscienze dei giovani rendendole un po’ più simili tra loro, riconoscendo la somiglianza di queste coscienze distanti e connettendole. Diventano la prima connessione globale, la prima volta in cui a livello planetario ci si sintonizza su una stessa lunghezza d’onda (sonora), che è poi quella chiamata post-moderna, con la centralità del sentimento, le esperienze continue (accumulo quantitativo), la rivolta indefinita, e la nostalgia per un qualche assoluto per sempre svanito. 

  

  
Bob Dylan è stato l’artista più legato alla beat generation, quasi il suo naturale prosecutore anche perché, a differenza degli altri, era americano e figlio di quegli spazi enormi in cui correvano le macchine degli scrittori beat e perché possedeva l’incomparabile forza poetica, oltre alla tradizione musicale innestata poi sul rock, che gli ha permesso di mutare sempre, di rivoluzionarsi ogni pochi anni in maniera radicale. Dylan è rivolta permanente, e nell’unico modo possibile, percorrendo le vite di tutti gli uomini in uno solo, alimentando l’unica rivolta reale contro l’assurdità percepita dell’esistenza, ovvero quella personale, sfuggendo al destino cambiando di continuo identità, e quindi spesso anche religione. In una carriera che ha intrapreso mille strade diverse e che ha coinciso con la sua vita

    
Ma come si diceva, l’album che forse più di ogni altro racconta la storia della parabola dylaniana è “Highway 61 Revisited”. La canzone che apre l’album è “Like a Rolling Stone”. Abbandonata la chitarra acustica, è il rock che irrompe sulla scena. È rabbia che si fa largo, ma una rabbia irridente, divertita, nei confronti di una ragazzina un tempo altezzosa che adesso si trova a vivere una vita disgraziata e senza meta. La musica, nonostante la durezza del testo, ci fa divertire. È il momento di correre, di muoversi, di rompere con la tradizione. Di iniziare a girare senza meta, come una pietra che rotola anche se l’incertezza del posto e dei sentimenti tra le lyrics emerge subito nelle domande che vengono poste alla protagonista e ci dicono già che c’è qualcosa che non va (“How does it feel / To be on your own / With no direction home / Like a complete unknown? Like a rolling stone?”), ma la musica sorregge la voglia di andare per le strade d’America e del mondo ad accumulare esperienze. Nella tensione tra la musica e le parole, Dylan dimostra già cosa sarà la liberazione sociale e sessuale che sta per arrivare. Con la sua carica vitalistica sorregge la voglia di partire, di liberarsi, di aprirsi, di non fermarsi mai, di iniziare a rotolare senza direzione. Ma c’è anche la desolazione intrasentita di una liberazione dirompente che lascia senza nulla, come sconosciuti, senza casa, senza direzione e soli.

  

      

Il disco, traccia dopo traccia, è una surreale rimessa in scena del mondo e della società tradizionale attraverso personaggi storici e biblici innestati nella vita quotidiana: da Giovanni Battista a Jack lo Squartatore, da Abramo che parla con Dio a Galileo. E tutti si muovono, tutti si spostano in un immaginario impazzito, fatto a pezzi, in cui solo la musica, scatenata, spezzata, forte, aggressiva, sorregge gli animi. A metà album, Dylan rallenta per un attimo ma aumenta ancora il volume dei suoi accordi, stavolta tratteggiati con la nettezza del pianoforte, musica inquietante e assertiva, “The Ballad of a Thin Man”. Dylan osserva un Mr Jones, un uomo qualsiasi, che si muove in un mondo irrazionale, il mondo in frantumi che Dylan vede attorno a sé, e Mr Jones non riesce a trovare un senso in quello che vede e da cui è circondato nonostante sia colto e ben educato. Si rende conto che qualcosa sta succedendo attorno a lui, ma non riesce a capire cosa sia. Restano solo molte domande, solo domande, come quelle che chiudono ogni strofa della canzone (“Because something is happening here but you don’t know what it is / Do you, Mr Jones?”). E alla fine sembra che il povero Mr Jones rimanga incastrato in questo eterno ritorno di domande. Nonostante si comporti bene e sia preparato e ben educato e faccia tutto come va fatto, il mondo non ha più senso davanti ai suoi occhi. Una figura talmente iconica e disperata, che i Beatles lo inseriscono nella loro canzone “Yer Blues” che inizia così: “Yes I’m lonely / want to die / if I ain’t dead already / Oh girl you know the reason why”, e qualche strofa dopo “I feel so suicidal / Just like Dylan’s Mr Jones”.

  
Nella penultima canzone, “Just Like Tom Thumb’s Blues”, ci troviamo a Juarez, in Messico. Luogo di viaggi alcolici e mescalinici per chi è in cerca di esperienze di vita. La voce che canta, in prima persona, vede attorno a sé prostitute che parlano inglese per adescare clienti, poliziotti corrotti, pioggia che aumenta la malinconia e la pesantezza di un uomo che sente di avere consumato nel suo vagabondare tutto quello che c’era da consumare, che ha mangiato tutte le esperienze e le strade che il tanto viaggiare ha offerto. Una dolcezza sfinita attraversa la canzone e poi non resta altro che sbronzarsi un’ultima volta, salire da un’ultima donna, prendere ancora un po’ di droga per capire di averne avuto abbastanza; e l’unica soluzione sembra essere il ritorno alla civilizzazione, alla normalità, tornare a New York (“I’m going back to New York City, I do believe I’ve had enough”). Ma cosa è rimasto della civilizzazione, di New York (il compendio di ciò che è civilizzato), la città punto d’arrivo della storia d’occidente?

  
Row, in inglese, è una parola che sta principalmente per fila, quando si va al teatro o al cinema. Ma insieme alla parola death, a esempio, indica il braccio della morte (death row) di un carcere. E allora “Desolation Row”, l’ultima canzone dell’album “Highway 61 Revisited” non è altro che questo: il braccio della desolazione, il luogo della desolazione. E, come in un carcere, assistiamo, in questa lunga e lenta ma inesorabile parata in cui Dylan ci guida (come se fossimo sulla strip di una qualsiasi cittadina americana, o come se fossimo su una delle grandiose avenue che attraversano Manhattan dove è appena tornato dal suo molto viaggiare) a guardare, allineati uno dopo l’altro, affaccendati in scenette avvilenti, alcuni personaggi simbolo di quella che è la grande storia già conclusa della nostra civiltà. Dando fondo al suo immaginario poetico pone in quadretti surreali T. S. Eliot ed Ezra Pound (suoi certi riferimenti poetici), Einstein, Casanova, la mitologia classica, le stelle del cinema, Shakespeare, l’opera lirica, Caino e Abele, il buon samaritano, Noè e Robin Hood, il Titanic pronto per affondare mentre le sirene cantano attirando i marinai. Mostra in una manciata di immagini le radici e l’evoluzione della nostra civiltà che precipita in una stasi deprimente.

 

Ed è un quadro nostalgico, tenero a volte, anche quando si muore, ma radicalmente desolato. Mostra un cammino compiuto, la miserabile ma serena condizione di una parabola terminata. Ogni persona descritta è sfinita, anche quando si sta preparando per una festa, perché questo suggeriscono le parole e la musica che le accompagna. Si rinuncia a tutto in maniera crepuscolare, si sta chiusi dentro la certezza dei riquadri assegnati sperando in una tregua dal tumulto della vita. Questo luogo di desolazione potrebbe essere anche un surreale manicomio dove ci si va a rinchiudere avendo perso la ragione per stare nel mondo, dopo avere esaurito le preghiere. E l’interminabile assolo di armonica che anticipa l’ultima strofa è la sirena che annuncia la fine di un mondo che ormai, il cantore, sente estraneo per sempre tanto da chiedere di non essere più contattato, anche perché non riesce quasi più a leggere, a meno che quel contatto non venga da quel luogo sognante di pazzi che è il braccio della desolazione (“Right now, I can’t read too good, don’t send me no more letters no / Not unless you mail them from Desolation Row”). 

  
Dylan anticipa così, in poche canzoni, l’incipiente entusiasmo per la rivoluzione degli anni 60 e anche la sua fine e tutto quello che verrà dopo tra incertezze, confusione morale e solitudine spirituale. La speranza di poter trovare una qualche salvezza nel movimento continuo nello spazio e nel tempo termina nell’icastica rappresentazione di vite immobilizzate in una strada di pazzi.

 
La pietra smette di rotolare. Rimane un uomo che non ha più nulla da conquistare, che ha esaurito i propri percorsi geografici, percorrendo i limiti del mondo conosciuto e affondando anche bene i piedi nella religione ed esaurendo anche quella perché non la trova più praticabile, più capace di parlargli e alla fine esaurisce anche il vino, le droghe e il sesso. Non può volgersi dentro di sé, perché si trova vuoto ed esausto. Non può rivolgersi al cielo, perché lo trova gelido e distante. Cosa fare? Il senso è cancellato. Resta la paralisi di immagini cristallizzate. 

 
L’unica soluzione sembra l’eterno presente del Neverending Tour in cui si possono trovare brandelli di serenità, andando ad allungare la fila dei suoi personaggi nel braccio della desolazione. Senza una destinazione, c’è solo ritorno, eterno ritorno, radicale assenza di senso, assenza di destino.