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I Berliner Philharmoniker indicano un modo unico di vivere la musica

Mario Leone

Dopo 17 anni la più famosa orchestra sinfonica è tornata a Roma. Un successo senza uguali

Mancavano dal 2004 a Roma, quando sul podio dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia salì Sir Simon Rattle. Le musiche di Haydn, Bach, Brahms-Schoenberg. Il successo debordante. E’ sempre così con i Berliner Philharmoniker, in Germania, in Italia e in qualsiasi parte del mondo. Reazioni “scontate” perché parliamo dell’eccellenza, di un modello musicale, organizzativo. Dire Berliner Philharmoniker significa indicare un suono riconoscibilissimo, un modo di essere e vivere la musica. Descrivere una cultura, quella occidentale, in cui certa musica è simbolo di civiltà, di unità e valori condivisi.

 

A questa orchestra non è mai mancato nulla. I migliori musicisti, il direttore, eletto dalla stessa orchestra. Per non parlare del pubblico: i Berliner sono gli unici ad avere una platea planetaria. Poche ore dopo il concerto romano, unica tappa italiana con la quale hanno chiuso il Romaeuropa Festival 2021, è complesso “recensire” l’evento. Da un lato il senso di silenzio che prende l’ascoltatore, dall’altro il rischio di cadere nell’ovvio o nel retorico. La Sinfonia n. 3 “Scozzese” di Mendelssohn e la Sinfonia n. 10 di Šostakóvicč rappresentano due capisaldi del repertorio sinfonico. La prima, nata dalle suggestioni di un viaggio in Scozia, si inserisce nell’alveo dello stile romantico. La seconda è un grande tributo al sinfonismo mahleriano di un compositore ormai maturo e temprato dalle vicende storico-politiche che accompagnavano le sinfonie precedenti. Entrambe sono cucite perfettamente addosso a un’orchestra, quella tedesca, che suona facendo musica da camera, fraseggia come se cantasse, si impone senza invadenze.

 

Se proprio si deve indicare qualcosa di nuovo che sta accadendo ai Berliner in questi anni a guida Kirill Petrenko, oseremmo annotare questo: un rinnovato modo di intendere l’interpretazione. Non più un proporre una visione pietrificata di un’opera d’arte ma il tentativo di fondere passato, presente e futuro. L’esecuzione diventa così un ponte verso il futuro che nasce nel presente (durante l’esecuzione) in un rapporto vis-à-vis che abbatte la fissità e permette infinite possibilità di scoperta. Ed è qui il secondo aspetto dei Berliner con Petrenko. Le infinite e sempre nuove possibilità di riscoprire il brano. Sentire piccole flessioni, timbri, voci, echi. Ma per scoprire bisogna attendere ed è questo un ulteriore aspetto di questo gruppo di artisti. Kirill Petrenko non ama il protagonismo, l’esibizionismo e l’esteriorità. Lui vive completamente consacrato alla musica. Quanto più è grande questa dedizione tanto più è grande la capacità attrattiva. Raramente si assiste a un’orchestra che sia veramente in attesa del suo direttore.

 

Si possono trovare orchestre attente, recettive, ma non in attesa. Sono cose ben diverse. L’attenzione (caratteristica fondamentale per fare musica insieme, per l’amor del cielo) nasce anche da un dovere e una propria capacità. L’attesa nasce da un amore e da un desiderio di seguire. Petrenko, con i suoi musicisti, è riuscito a creare una purità nell’atto esecutivo e interpretativo. Una verginità nel fare musica che è qualcosa di cui non finiremo mai di ringraziare. Come ha fatto il pubblico romano tributando decine di minuti di applausi, uscite sul palco e l’invito, celato tra i “bravo” che si alzavano da tutto l’auditorium, di non aspettare ancora diciassette anni per tornare a farci emozionare sin nelle viscere.
 

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