James Hetfield dei Metallica in concerto a Lisbona, Portogallo, nel 2018 (Ansa) 

Trent'anni in nero. Un album tributo per celebrare l'universalità dei Metallica

Nicola Contarini

Nel 1991 i quattro californiani uscivano dall'adolescenza rabbiosa con la quale avevano forgiato il nuovo heavy metal, per incidere un disco dal successo commerciale senza precedenti. Oggi festeggiato da 53 artisti internazionali, da Miley Cyrus a Dave Gahan

Il 12 agosto il “Black Album” dei Metallica ha compiuto trent’anni e la band ha deciso di celebrare il più grande successo commerciale della storia dell’heavy metal con un progetto speciale: “The Metallica Blacklist”, una compilation in uscita oggi in cui 53 artisti internazionali interpretano ciascuno una canzone delle 12 del “Black album”.

Pochi musicisti metal: tra questi i The HU, folk metal dalla Mongolia, strumenti tradizionali e canti gutturali. Tanti artisti indie, Mac DeMarco, mago del pop da cameretta, canta “Enter Sandman”, scelta anche dai colleghi Weezer, la guitar heroine St. Vincent tratta a modo suo “Sad but True”. Alcuni nomi di peso del pop internazionale, che non a caso scelgono in massa la ballata “Nothing else matters”: Dave Gahan dei Depeche Mode, e Miley Cyrus in duetto con Elton John. E ancora: il cantante reggaeton J Balvin, il trio rap Flatbush Zombies, il sassofonista jazz Kamasi Washington, l’electro-funk di SebastiAn. La coppia di chitarristi classici Rodrigo y Gabriela chiudono con “The struggle within”. Gli incassi andranno in beneficenza. 

 

Come si spiega una tale universalità, che consente ad artisti agli antipodi per contesto e genere di ritrovarsi tutti insieme a celebrare un solo disco, in una grande festa? Per di più un disco heavy metal, la nicchia che ha fatto dell’assalto sonoro una ragione di esistere, al limite dell’esplicito scopo di respingere l’ascoltatore. 

Il fatto è che nel 1991 i quattro californiani – la mente, il batterista Lars Ulrich, il cuore, la voce James Hetfield, le braccia, il virtuoso della chitarra Kirk Hammet e il bassista Jason Newsted – si trovano davanti a un bivio: insistere in un genere che hanno contribuito a fondare e del quale hanno già raggiunto la vetta stilistica con i quattro album precedenti, tutti capolavori nel ghetto metal, o fare il salto che li porterà tra i colossi della musica “popolare” americana nel mondo, al pari di Springsteen e Madonna. L’omonimo “Metallica”, noto come “Black Album” per la copertina monocroma, percorre questa strada.

 

Le composizioni del gruppo non sono mai state così semplici: un ibrido rock metal rallentato rispetto agli esordi, che pesta più che tagliare, un suono “largo” che specialmente per la batteria ha fatto scuola. Ed è vero che negli anni Novanta il rock vende ancora, di lì a poco il fenomeno grunge con i Nirvana in testa, ma questo relativo ammorbidimento non basta da solo a spiegare un tale successo: a oggi più di 35 milioni di copie vendute, oltre 500 settimane non consecutive di permanenza nella classifica Billboard.

Il punto è che questa trasformazione del sound fa parte di un complessivo cambiamento di prospettiva: è ora per i Metallica di mettere da parte lo sguardo ipercritico dell’adolescente incazzato, che di fronte a droga, paranoie nazionaliste, bellicismo e fondamentalismo religioso, si tira fuori e scomoda letteratura alta (“For whom the bell tolls”, da “Ride the lightning” dell’84) o orrorifica e di genere (gli esempi si sprecano) per sublimare il proprio male di vivere. Adesso James Hetfield autore di testi vuole raccontare e raccontarsi in prima persona: ha scavallato l’età critica per un rocker, i trent’anni, senza soccombere alle dipendenze. Dal nichilismo all’esistenzialismo.

 

Un’esposizione senza filtri: come in “The god that failed”, ispirata dalla morte della madre, cristiana scientista che gli aveva condizionato l’infanzia, per aver rifiutato le cure del cancro. O “Don’t tread on me”, che ripete il motto libertario della “Gadsden flag”, risalente alla Guerra d’indipendenza americana: il serpente raffigurato sulla bandiera è anche visibile in controluce sulla copertina dell’album. Un manifesto di conservatorismo politico? No: una reazione all’anti americanismo che aveva caratterizzato il disco iper politicizzato “…And justice for all” di tre anni prima. Su Rolling Stone Hetfield disse: “Questo è l’altro lato. L’America è un posto grandioso, lo penso davvero. Ed è un sentimento che viene dall’essere stato così tanto in tour. Scopri cosa ti piace di certi posti e perché ci vivi, nonostante tutta la merda”. 

Un cuore aperto che si riversa nelle ballate: la ormai celeberrima “Nothing else matters”, che pure suona stucchevole nel paragone con l’immensa “The unforgiven”. Il colpo di genio: prendere la classica struttura dei lenti heavy metal, strofa piano e ritornello forte, invertire le intensità e creare un inedito gioco di tensioni. Dopo il “Black album”, i Metallica scompaiono artisticamente: non perché smettano di essere sinceri, ma perché non tutti possono essere Dylan o Springsteen e imbroccare più di un capolavoro raccontando la pancia dell’America. Ma con quell’unico disco perfettamente in equilibrio tra fedeltà al genere e sensibilità popolare (e commerciale), i quattro californiani hanno mostrato al massimo livello come un linguaggio a modo suo estremo possa essere usato per parlare ai più.

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