AP Photo/Scott Audette

Mettete insieme Paul McCartney e Rick Rubin, non ve ne pentirete

Stefano Pistolini

La serie "McCartney 3,2,1": concept semplice e suggestivo, tra intervista e memorie del bassista dei Beatles

Quella tra Paul McCartney e Rick Rubin, palesemente, è una questione di tocco magico. L’inarrivabile autore (vivente) di pop songs, a confronto con il produttore capace di restituire vita e voglia ai grandi artisti confusi, o anche d’inventare di sana pianta un sound (Beastie Boys, per fare un nome). Il luogo dell’incontro è “McCartney 3,2,1”, succulenta serie televisiva in sei parti da mezz’ora ciascuna, prodotta dal canale a pagamento Hulu, da ieri visibile solo in America – salvo acrobazie digitali – ma destinata a spuntare anche da noi.

 

Il concept è semplice e totalmente suggestivo per gli appassionati: Paul viene quietamente interrogato da Rick e spiega come ha fatto. Rick elabora e offre delle letture e delle interpretazioni alternative. Paul dice: “Io sono il primo fan dei Beatles. E adesso che non ci sono più, li riascolto e trasecolo: come siamo arrivati a realizzare certe cose?”. Rubin ascolta, domanda, sospinge McCartney ad approfondire la vivisezione di quella musica che è ancora lì, immota, intatta, smagliante. Di tanto in tanto il discorso si sposta sugli altri, i compari perduti per strada, le loro storie e peripezie. E ovviamente nella memoria di Paul, John, George e Ringo (“Era lui veramente a tenerci insieme”) non smettono mai di avere vent’anni, o anche meno, sono eternamente alle prese con famiglie disfunzionali, con la timidezza, con quella incapacità di comunicare con pienezza, che fa tanto Britannia del Dopoguerra.

 

Ma poi Paul e il suo prestigioso interlocutore – sempre scalzo, spesso seduto ai suoi piedi a gambe intrecciate – tornano alla materia prima, a ciò che amano più di ogni altra cosa: le canzoni e i segreti che contengono e a volte nascondono. E riparte il gioco del “come abbiamo fatto”, del “fammi capire come ci siete arrivati”, del “cosa stavate cercando di fare”. E Paul, tira fuori gli strumenti e spiega, con la precisione dell’orologiaio e l’orgoglio, semplicemente, dell’artista puro. Che poi, il fascino particolare di questa serie dove si raccontano una miriade di aneddoti interessantissimi, ma che per gran parte sono già noti ai cultori della band e di Paul in particolare, sta proprio nel confronto tra i suoi due protagonisti.

 

Paul è a undici mesi dall’ottantesimo compleanno (ma se ancora non l’avete fatto date un ascolto a “McCartney III” l’album che ha pubblicato nel 2020, subito dopo rivisitato con “McCartney II: Imagined”, nel quale rimette mai ai pezzi col contributo di artisti come Beck, St. Vincent, Josh Homme, Anderson Paak. Non ve ne pentirete). Rick intanto sta approdando solo ai sessanta, ma è come se fosse da sempre nato saggio e stagionato, con quel sapere interiore che è la sua vera essenza. Vedere questi due adulti consapevoli, confrontarsi con una serietà sempre venata di emotività, ma mai distaccata dalla rete tecnica che li connette, testimoniare la serietà e l’amore che sanno riversare nel lavoro, ma soprattutto nella creatività, commovente.

 

Certo, la rilassatezza dello show, la lucidità con cui Paul ripercorre le gesta della band e poi della sua carriera solista, si collocano tutte “dopo”, a posteriori, nella posizione della Storia consolidata. Ma c’è sempre, percettibile ed elettrizzante, quel filo rosso dell’emozione e della passione, che rende la faccenda particolare: qui si ripensa, si ricorda e ci si sorprende nel ricostruire come e perché si facevano certe cose. Ma in sospensione c’è anche la suggestione che momenti così possano sempre ricapitare. Se il tempo, lo spazio e le divinità saranno favorevoli. E se le intelligenze saranno scintillanti come quelle e, soprattutto, altrettanto libere.

 

Di più su questi argomenti: