Ali Farka Tourè in concerto a Oslo nel 2016. È soprannominato l'Hendrix del Sahara (Wikimedia commons)

il foglio del weekend

Le radici del rock

Marco Ballestracci

Dai tuareg a Elvis. Le melodie dei nomadi nel Sahara hanno migrato fino al blues del Delta del Mississippi. È il miracolo della musica

Un’indagine di Art and Culture Stat dimostra che negli Stati Uniti d’America quasi il sessanta per cento delle persone conosce dove si trova geograficamente e che cos’è il Delta del Mississippi. È un risultato confortante, d’altro canto là s’è sviluppata una parte non secondaria della storia, della letteratura e, soprattutto, della musica americana. Del tutto comprensibilmente, invece, in Europa non è così chiaro, anche se la musica del Sud (degli Stati Uniti) vanta numerosi appassionati. Ci si confonde perché il Delta del Mississippi non è, come ci si attenderebbe dal nome, il luogo dove il Fiume sbocca nel Golfo del Messico, appena più a sud di New Orleans, vicino a minuscoli paesi dai nomi suggestivi come Barataria o Jean Lafitte. In realtà il Delta del Mississippi si trova quattrocento chilometri più a settentrione e non ha nulla a che fare con la foce del fiume.

 

È un triangolo geografico – a dir la verità un poco arcuato e tondeggiante – formato dalla città di Memphis a nord, e di Jackson e Vicksburg a sud. Il lato a ovest (Memphis -Vicksburg) è delimitato proprio dal Grande Fiume e la regione si chiama Delta perché osservandola sulla carta geografica richiama la forma della lettera greca. Oggi lo stato del Mississippi e l’area urbana di Memphis nel Tennessee non emanano più un grande bagliore – insieme conterebbero appena otto grandi elettori alle elezioni presidenziali – ma un tempo hanno avuto una fama sfolgorante. Irrorato dalle frequenti tracimazioni del fiume, il Delta del Mississippi è tuttora l’area più fertile degli Stati Uniti e finché le città industriali del Nord non si sono rivelate un’inarrestabile tentazione economica – soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale – è stato un territorio di grande richiamo.

 

Prima i porti fluviali, i piroscafi come li raccontava Mark Twain e poi le ferrovie, con i carri stipati di balle di cotone, generarono formicai di persone che lavoravano vicino al fiume e che, al termine delle corvèe, desideravano divertirsi. Accadde così che città come Clarksdale, Greenville e, soprattutto, Memphis, si riempirono di locali, di giocatori, di donne sportive e ovviamente di chi forniva il sottofondo a tutto ciò che accadeva: i musicisti. La lunghissima lista dei cantanti famosi e dei performer che sono nati e che hanno risieduto per molto tempo nel Delta del Mississippi è la miglior prova che questo, senza discussioni, è il più importante crogiolo per lo sviluppo dell’american music. A confermarlo c’è, ad esempio, il fatto che Bob Dylan ha intitolato “Highway 61 Revisited” il suo album più importante, immortalando per sempre la strada che taglia in due il Delta. Ma se ciò non fosse ancora sufficiente a testimoniarne la supremazia è necessario estrarre il nome che interrompe di colpo ogni dibattito: proprio là è vissuto il vero e unico Dio della musica americana e l’esempio più calzante di ciò che viene definito, spesso a sproposito, ma non in questo caso, il Miracolo Americano. Elvis Presley.

 

Elvis era nato a Tupelo, Mississippi, da genitori molto poveri che vivevano in una casa mobile sgangherata, tuttavia il ragazzo a 22 anni, nel 1957, per centomila dollari, acquistò Graceland, una bianca e grande dimora neocoloniale nella parte sud di Memphis. Fu uno strabiliante miracolo americano costruito solo grazie alla musica del Delta del Mississippi. La musica dei neri che Elvis ascoltava in casa, alla radio, e che poi riprodusse e incise negli studi di registrazione della Sun Records. Il blues. Ancora oggi lo spirito del blues è così presente che tutto ciò che riguarda lo stato del Mississippi è immaginato, dal punto di vista del panorama, molto simile al territorio che ha generato questa musica. Ci si aspetta perciò che ogni dettaglio dello stato incarni per analogia le descrizioni che gli scrittori o i reporter fanno del Delta. Tra tutte, curiosamente, la più appropriata appartiene a un etnomusicologo italiano: Luciano Federighi, che ne ha colto in pieno il tratto solitario, coniando la definizione di “piatta e desolata bellezza”. “Piatta e d’una desolata bellezza, la regione agricola del Delta si estende a sud di Memphis tra il corso del Mississippi e quello del suo affluente Yazoo: fertile terreno alluvionale, è stata per oltre un secolo il regno del cotone”.

 

 

In realtà, però, gran parte della bellezza dello stato del Mississippi non è affatto piatta e desolata, tutt’altro. Il territorio è fittissimo di boschi e salvaguardato da numerose National Forest e a nord-est persino molto collinare, costellato da piccoli e grandi laghi, tanto che negli appunti di viaggio di numerosi visitatori europei, con una certa sorpresa, si trovano frequenti accostamenti alla Svizzera. Questa è la zona delle Colline del Mississippi – le Mississippi Hills – e la città più rilevante è Oxford, la cui predominanza rispetto alle località circostanti è legata a una questione culturale. Qui nel 1848 venne aperta la prima Università dello stato – la Ole Miss – e il nome della città è una diretta conseguenza dell’intendimento di far diventare la cittadina, già dalla fondazione, un importante centro accademico. Ad accrescerne ancor più l’aura intellettuale fu la circostanza che nel 1902 si trasferì da Ripley ad Oxford – uno spostamento d’una quarantina di chilometri – la famiglia di Murry Falkner, che poi, per un errore dell’anagrafe, divenne Faulkner, il cui figlio maggiore si chiamava William.

 

Così la Contea di Lafayette, di cui Oxford è capoluogo, si trasformò nella storia della letteratura americana nella Contea di Yoknapatawha con capitale Jefferson e alla fine, sotto mentite spoglie, Oxford rappresentò lo scenario dei racconti e dei romanzi che condussero William Faulkner al Premio Nobel per la Letteratura nel 1949 e a due Premi Pulitzer. Perciò i monumenti più importanti della città sono quelli legati alla memoria dello scrittore: la Power House del campus dell’Università dove, da portiere notturno, nel 1929 scrisse “Mentre Morivo” e Rowan Oak, la sua casa dal 1930, acquistata coi diritti di “Mentre Morivo” e de “L’Urlo e il Furore”. È quindi possibile affermare che i ventinove acri di Rowan Oak e la sua facciata bianca neoclassica siano per Oxford l’omologo di Graceland a Memphis: l’imperitura memoria domestica del cittadino più famoso. Al tempo stesso però si può ben comprendere come l’aura d’un Premio Nobel per “il suo potente e unico contributo artistico alla narrativa moderna americana”, nonché il suo famoso stream of consciousness, nonostante Graceland sia il secondo monumento più visitato degli Stati Uniti, collochi gli oxfordiani su un gradino culturalmente superiore rispetto a qualunque altro abitante del Delta e, perché no, di tutto il Mississippi.

 

Una posizione in cui il blues, l’elemento che in qualche modo caratterizza tutti gli altri luoghi, è infinitamente deteriore rispetto al lascito artistico di William Faulkner. Ciò nonostante, in barba all’indiscussa superiorità locale, furono proprio due studenti dell’Ole Miss a fondare a Oxford, all’inizio degli anni Novanta, una casa discografica che aveva il preciso intento di scovare tra le colline misconosciuti musicisti di blues e di registrarli. La casa discografica si chiamava (e si chiama) Fat Possum (l’Opossum Grasso) e all’inizio il suo campo d’azione ebbe un raggio di non più di quaranta chilometri, perché attorno, nella Holly Spring National Forest s’incontravano delle vere e proprie enclaves densissimamente popolate da piccoli proprietari agricoli afroamericani che conservavano la vecchia e cara usanza di divertirsi con la musica alla fine delle giornate. Erano piccole fattorie sperdute nelle radure che molto raramente, praticamente mai, ricevevano visite di bianchi. Lì, a loro agio nella propria casa, i musicisti furono registrati con attrezzature portatili.

 

Sorprendentemente le incisioni ebbero così successo che inaugurarono un nuovo filone musicale: “il Blues delle Colline”. In realtà non fu una grande rivoluzione – gira e rigira la musica era più o meno la stessa – ma qualcosa nei dischi di Robert Lee Burnside e, soprattutto, di Junior Kimbrough, due agricoltori dai poderi confinanti, conteneva qualcosa che sfuggiva al già sentito e perciò le loro incisioni incuriosivano e attraevano. Possedevano un suono vorticoso, concentrico e, alla fine di tutto, torbido che era insolito e poco classificabile sulla base degli standard d’un genere così consolidato come il blues. “Cosa vuoi aspettarti dalla gente che campa attaccata alla Contea di Yoknapatawha? Qua l’aria è piena di quella roba densa che c’è dentro i libri di Faulkner. Un misto di protestantesimo bianco, segregazione razziale e infedeltà matrimoniali. È chiaro che salta fuori un suono torbido che par di stare a leggere ‘Il Buio Oltre La Siepe’.

 

Qua siamo nel cuore del senso di colpa sudista. C’è tutto il torbido del mondo e finisce dritto nella musica”. In effetti poteva essere una spiegazione accettabile per un suono così inconsueto. Se qualcuno si considera un fan della “musica africana” prima o poi incontrerà un conoscente che lo scuoterà e gli dirà: “Ma ti rendi conto di quanto grande è l’Africa e quanti tipi di musica ci sono dentro? Come fai a dire che ami la musica africana? Quale musica africana di preciso?”. È proprio così. La musica africana che si ascolta in America o in Europa è solo la punta d’un gigantesco iceberg che conosciamo solo perché artisti come Peter Gabriel e Nick Gold hanno deciso di produrre e distribuire in tutto il mondo. Fortunatamente la punta dell’iceberg comprende grandi musicisti come Ali Farka Toure, da Niafunkè, Mali. Anche Alì Farka Toure è stato un agricoltore: il denaro che ha guadagnato nelle tournèe mondiali l’ha reinvestito in pompe idrauliche così da convogliare l’acqua del Niger per combattere la siccità e irrigare i terreni attorno al paese dov’era cresciuto. La gratitudine degli abitanti lo rese il sindaco della cittadina per due anni, fino alla suo morte. Sulla copertina di quello che è stato il suo ultimo disco, “Savane”, è scritto in calce: “The King of The Desert Blues Singer”.

 

È proprio l’inaspettata parola “desert” che porta a osservare la carta geografica e a scoprire per quale ragione le pompe idrauliche fossero così necessarie a Niafunkè: perché è abbondantemente all’interno del limite grigio del Deserto del Sahara e, al contempo, fa anche comprendere la ragione per cui la musica di Alì Farka Toure sia stata considerata il blues del deserto. Tuttavia questa definizione è una forzatura occidentale, perché nessuno in tutta l’Africa del Nord sino al Benin penserebbe di accostare questa musica al blues, perché è un termine che raramente hanno sentito nominare. Per tutti nel Maghreb, nel Sahel e sulla costa questa è semplicemente la Musica del Deserto e a diffonderla ovunque sono stati i Kel Tamashek: i touareg. Tuttavia, se è necessario in qualche modo darle un nome, bisogna chiamarla come viene chiamata da loro, dal popolo blu: assouf. La band più famosa della Musica del Deserto e dell’assouf sono i maliani Tinariwen, touareg di Tissalit, ma per molto tempo esuli prima nei campi militari libici e poi a Tamanrasset, in Algeria. Ascoltarli dal vivo o su qualsiasi supporto è eccitante, ma, al tempo stesso, sconcertante.

 

Posseggono un suono vorticoso, concentrico e, alla fine di tutto, torbido. “Cosa vuoi aspettarti da gente che è stata così tanto tempo in esilio? Che ha suonato nei campi profughi in Libia e Algeria, così lontano da dove sono nati e cresciuti? La musica è torbida perché si porta dietro l’anima di tutti i morti nelle guerre di liberazione nazionale”. È necessario pochissimo tempo per comprendere che il suono dell’assouf è il medesimo suono vorticoso, concentrico e torbido dei fattori neri registrati dagli studenti dell’Ole-Miss sulle colline del Mississippi. Una musica che possiede i precisi echi ritmici, le stesse dissolvenze di chitarre lamentose e le voci che richiamano le salmodie. Come se le melodie trasportate dai nomadi negli enormi spazi del deserto del Sahara e giù fino alla Costa degli schiavi si fossero trapiantate perfettamente identiche nella piccola Contea di Marshall, appena fuori Oxford.

 

Come a dire che nelle enclaves completamente nero-americane, dove non ci sono state contaminazioni con la musica bianca – come accade nelle colline del Mississippi – la musica è rimasta identica e s’è sviluppata nello stesso modo di come è accaduto nel luogo da cui è partita molto tempo prima. Come se non fossero passati più di due secoli e come se tra il Mali e la Contea di Marshall non ci fossero ottomila chilometri di distanza, con in mezzo l’Atlantico e un quarto del continente americano. Come se l’assouf fosse volato dall’Africa assumendo la forma d’un grande un uccello migratore e poi si fosse posato là dove desiderava: in un nido piccolo rispetto alle sue dimensioni, ma in cui si sentiva così a suo agio. Vederlo volare e posarsi è nient’altro che uno dei meravigliosi miracoli che la musica continua inarrestabile a compiere.