La vincitrice del talent di Sky prodotto da Fremantle è Sofia Tornambene. Secondi classificati i Booda, terzi i La Sierra (foto concesse da Sky, di Jule Hering)

C'è il rap snob

Simonetta Sciandivasci

I La Sierra sono saliti sul palco di X Factor con una canzone sull’agire e molte altre cose da dire. Avrebbero dovuto vincere questa edizione

Sono tutti arrabbiati tranne loro. Che sono due, il numero fortunato per fare male una relazione e bene, forse alla perfezione, alcune cose molto più importanti per noi, nella nostra vita di adesso: il rap, le conversazioni, i litigi. La prima volta che sono saliti sul palco di X Factor hanno detto: “Siamo i La Sierra, abbiamo 26 anni, abbiamo investito tutto nella musica” e hanno parlato e cantato una canzone, come si fa nel rap, che si chiama “Enfasi” e che nel ritornello dice “parliamo con enfasi solo se non ci vediamo da anni” e parla di quel momento bizzarro, d’espansione e ritrazione, che viene dopo un amore vecchio e tragico e prima di uno nuovo e più accorto. Un momento che conosciamo tutti, e che è cruciale perché ci dà la misura del danno che ci ha provocato la fine di una storia: se ci ha resi più cinici, più duri, più disonesti, più consapevoli, meno disponibili, meno romantici, pessimisti, ottimisti, ingenerosi, solitari, guardinghi. Un momento che tendiamo a liquidare sempre troppo presto, per archiviare il passato e schiacciarlo con un chiodo a cui appendere il cappotto nuovo, la nostra forma nuova, smagliata dentro e smagliante fuori. Un momento che è una transizione e, insieme, un incastro, e che è così pieno di tensioni e dubbi e bugie che è finito raramente in una canzone.

 

L’Italia ripudia la guerra per pigrizia e il senso della realtà per faziosità, quindi ha preferito una canzone sul fantasticare

I La Sierra avrebbero dovuto vincere X Factor, quotati com’erano in quasi tutte le previsioni (il loro singolo è stato il più ascoltato, scaricato, trasmesso) e invece sono andati a casa nella penultima manche, e si sono visti portar via la X da Sofia, l’adolescente prodigio di dieci anni esatti meno di loro che non ha ancora mai amato e però ha scritto una canzone su come immagina vada tra due che si amano, che fa così: “Poi domani io ti porto via con me, su una cometa che si avvera, ma te la immagini quell’atmosfera, non dire sempre che per sempre non è niente, dimmi a domani per sempre”. L’Italia è un paese bambinizzato, e quindi gli italiani hanno preferito lei ai La Sierra. L’Italia ripudia la guerra per pigrizia e il senso della realtà per faziosità, quindi ha preferito una canzone su come le cose non sono ma dovrebbero essere, una canzone sul fantasticare, a una su come le cose vanno e dipendono dalla forza di volontà che abbiamo, una canzone sull’agire. 

 

 

 

Tanto in Enfasi quanto in altri pezzi, i La Sierra cercano di dire alcune cose precise: che il difficile non è salvarsi, ma sopravvivere dopo averlo fatto; che il talento necessario per vivere è commettere gli sbagli giusti; che il nuovo inizio sta sempre dentro un vecchio errore; che la responsabilità ci rende liberi; che vivere è incontrarsi e parlare. Un anno fa, quando erano ancora una band ignota al grande pubblico ma ben piantata nella scena del nuovo rap romano, quello romantico e depoliticizzato, che parla d’amore e non di disagio, di inclusione e non d’esclusione, e che vuole addensarsi molto più che dilatarsi, sul profilo Facebook di uno di loro, Sila Bower, scrissero: “Siamo fatti di libertà, ma l’anarchia non è nulla se non è accompagnata da un’autogestione a misura nostra”. Fabrizio De Andrè aveva dell’anarchia la stessa idea, e Dori Ghezzi l’ha spiegata in molte interviste: “Per lui essere anarchico non ha significato non avere regole, ma stabilirne di proprie e rispettarle a ogni costo, senza pretendere che gli altri facessero lo stesso”. Aderire convintamente a un codice personale senza permettere che questo ci trasformi in individui guidati dall’arbitrio: che sfida grandiosa. Di De André, per volere del loro giudice e tutor Samuel, a X Factor, i La Sierra hanno reinterpretato “Le acciughe fanno il pallone” – l’assegnazione più complicata, ambiziosa e insidiosa di tutta l’edizione di quest’anno, e forse anche delle ultime tre (in confronto, il difficilissimo rap su “Generale” di De Gregori affidato ad Anastasio lo scorso anno da Mara Maionchi era una cover di “Tu scendi dalle stelle”). Intorno al ritornello originale – ogni tre ami c’è una stella marina, amo per amo c’è una stella che trema, ogni tre stelle c’è un aereo che vola – hanno messo in versi nuovi il senso originale e lo hanno riassunto in un attacco che, come tutto quello che scrivono loro, forse perché siamo un po’ anziani e un po’ stronzi, ci arriva poco a poco, a volte dopo esserci sembrato soltanto imbarazzante, quasi avvilente, indegno. I ragazzini, invece, li hanno capiti subito i La Sierra. Hanno capito subito “Enfasi” e hanno capito subito che le acciughe di De André, in mano a loro, sempre acciughe sono rimaste, mentre a noi anziani per molti giorni è parso che fossero state trasformate in sardine (siamo stati un po’ condizionati dai nuovi movimentisti, sapete com’è, siamo vecchie spugne). De André spiegato ai ventenni dai ventenni, in quel suo pezzo sulle chance, sulla fortuna che viene dall’Oriente, sulle sorprese che la vita riserva a chi la affronta immergendovisi, a chi la vive come se fosse oceano, il mare più mare di tutti, questo De André rivisto e aggiornato all’epoca della cautela da due borghesi come lui, però in un tempo inassimilabile al suo, fa così: “Per quanto finora ne so, la vita è una corsa campestre, ginepri negli occhi e vedrò il roseo nella sottoveste, polline nel naso e cadrò fatto di polvere di stelle, mi piace perché sei ribelle, mi piaci perché sei ribelle”. Grande rima ribelle con stelle: la rivoluzione che bacia il destino. 

 

I ragazzini hanno capito subito i La Sierra. Hanno capito subito “Enfasi” e hanno capito subito anche le acciughe di De André

I La Sierra salgono sul palco vestiti molto male, da adolescenti e non da quasi uomini, da provinciali e non da pop star. Hanno un armadio zeppo di felpe molto brutte e anonime e pantaloni ancora più brutti ed eccentrici, rosa o rosso o giallo fluo, e quando arrivano sul palco sembra che ci siano finiti per sbaglio, mentre cercavano una palestra, o la mamma all’uscita di scuola. Però poi cantano, e si capisce subito che non potrebbero che stare lì, anche se sono insicuri e goffi, non belli e neppure brutti, con le loro facce tanto ordinarie che non riescono neanche a essere sgradevoli. Era dai tempi degli 883 che non si vedevano due musicisti con un aspetto tanto poco da musicisti quanto tanto da idraulici, e così irrimediabilmente privi di fascino, di magnetismo, di erotismo – il grande assente di questa edizione asessuata e asessuale, e di cui la sola a sentire la mancanza è stata Mara Maionchi, che ha spiegato molte volte come un artista senza carica erotica sia come un battito senza cuore, un sugo senza il sale, un viso senza bocca.

 

L’anno scorso, al posto dei La Sierra, nella quota rapper c’era Anastasio, che la prima cosa che aveva detto sul palco era stata “trasandato male”, in risposta alla domanda “come definiresti il tuo look”. E aveva vinto, esplicito e rumoroso com’era stato (agli italiani piacciono i rumorosi perché lasciano agli altri un margine d’azione più ristretto e quindi è facile dar loro la colpa di tutto). Lui era molto arrabbiato, era furioso, aveva cantato d’essere “stanco delle cose normali, io non mi alzo dal letto per le cose normali”, e che voleva far esplodere la cappella Sistina in milioni di coriandoli, e a vederlo, così solido, col collo un po’ taurino, le magliette da muratore, il corpo piccolo e muscoloso, l’aspetto teso, il fare nervoso, e il rap di lotta che ancora aveva addosso, avevamo creduto che una sua canzone avrebbe fatto crollare il Vaticano intero, e Roma, e noi, e tutti giù per terra. Ma Anastasio (eccezionale, lirico, potente), accidenti, non è durato, tanto che quest’anno è stata premiata una ragazzina che non solo si alza dal letto per le cose normali, ma le ricama pure, le sublima, le porta in trionfo. A un certo punto Anastasio ha smesso di tenere i pugni in tasca: li ha sciolti e non è stato capace di raccontare quello che è successo mentre lo faceva, ha voluto invece riproporceli, anche se aveva le mani fuori, libere, rilassate. E quando quest’anno è tornato a X Factor da artista affermato e ha proposto il suo nuovo singolo, ci ha regalato una presa in giro, un pezzo inautentico, una simulazione dell’Anastasio che è stato e che non può tornare. Come saranno i La Sierra tra un anno chi lo sa, magari anche loro dimostreranno di avere il fiato corto, di non essere acciughe che fanno il pallone, anche se è più difficile che succeda, perché la rabbia si spegne presto, e non è la rabbia la loro fiamma. Anastasio era ancora un po’ legato al rap politico, di denuncia, di scontro, anche se lo aveva innestato alla sua poesia armata, che era anche una corsa fuori da quel recinto, dall’appartenenza, e infatti a lui è stato rimproverato d’essere di destra (anzi: fascista!) per aver semplicemente piazzato qualche like a qualche status di respiro leghista. Ai La Sierra, che pure sul palco si presentano con lo stemma di un quartiere bene di Roma, non proprio un avamposto della sinistra antagonista, e hanno l’aspetto che hanno “i fasci” in un vecchio film di Muccino sugli adolescenti – “Come te nessuno mai” –, non viene rimproverato niente di niente. E non perché dopo mesi di fascistometri e notizie di rinascita del nazismo francamente esagerate, della reductio ad Hitlerum cominciamo a essere stanchi, ma perché i La Sierra cantano per un pubblico libero dall’identificazione, disinteressato alla riconoscibilità, un pubblico fluido, forse piccolo ma aperto.

 

Mentre altrove il rap ha preso a ingentilirsi da molto tempo, in Italia è un fatto assai recente. Il caso Drake, e poi Anastasio

I La Sierra sono morbidi, puliti, hanno l’aspetto innocuo e trascurabile, e non cantano recriminazioni ma inviti, sono in atto quello che Anastasio è stato in potenza e di lui hanno spalancato il varco che aveva aperto dicendo di sentirsi sia rapper che cantautore, e facendo davvero, profondamente, entrambe le cose. Mentre altrove il rap ha preso a ingentilirsi da molto tempo, in Italia è un fatto assai recente: stiamo ancora imparando che nel rap può confluire tutto e che il rap, di fatto, ha assorbito tutto. L’influenza di rap e hip hop è diventata un fatto di spirito del tempo, riflettendosi in tutto. Negli anni Novanta, i rapper s’ibridavano con i metallari, c’erano i Rage Against the Machine, ed erano parecchio incazzati. Oggi il rap canta, si fonde col soul e fa il soul, con l’r&b e fa l’r&b. Ha scritto l’anno scorso il New York Times che il canto è diventato una parte dell’hip hop grazie a Drake, che ha capito come rendere il rap e il canto una variazione l’uno dell’altro, abolendo la dialettica oppositiva e alternativa tra le due forme. La conseguenza indiretta ma gigantesca di tutto questo movimento così lontano da noi e che però comincia ad avere la sua presa anche sui nostri musicisti di quel genere è l’affievolirsi dell’elemento identitario. Anastasio, nel mainstream, aveva portato i primi segni di quell’indebolimento, anche se poi non è riuscito a metterlo a frutto ed è rimasto incastrato tra oggi e ieri, tra una comunità aperta e una chiusa, tra l’amalgama e il purismo. I La Sierra, che pure sono poco più vecchi di lui, invece, hanno sciolto molti più gangli, molti più debiti, molte più tradizioni ed è per questo che sono riusciti e mettere in rap, in un rap pieno di trap, con tanto di autotune e basi ripetitive e molto grossier, un lirismo cantautoriale che profuma d’alba e d’erba appena tagliata per aprire un sentiero. 

 

 

“Enfasi”, d’altronde, è una canzone che parla di un nuovo inizio, di come si può non comprometterlo con quello che c’è stato prima, di come si può farsi guidare dal passato senza esserne condizionati, di come non si debba mai lasciare che un errore ci tolga le parole e il fiato per tirarle fuori.

 

Quando Giuseppe Conte alla fine della scorsa estate ha inaugurato il nuovo governo, che non era nient’altro che una famiglia allargata dopo un divorzio breve e terribile, ha detto che avremmo dovuto impegnarci tutti, politici per primi, a essere miti, a contenere i toni, a pulire il linguaggio dagli estremismi e dalle volgarità. In fondo, ci aveva chiesto di parlare con enfasi il meno possibile. Non è servito a niente. Un mese e mezzo più tardi nella nostra vita sono arrivati due ragazzetti che ci dicono, invece, che è proprio quando ci allarghiamo dopo un divorzio che dobbiamo parlare con enfasi, perché la ricostruzione si fa prima di tutto con le parole, e le parole senza spirito sono come fondamenta senza cemento armato: non reggono ponti, palazzi, discorsi, sopravvivenza. Non reggono niente.

 

Dire con quale impeto si possa arrivare a un bacio è una spiegazione perfetta per il senso nuovo del rap, compreso quello dei La Sierra

L’enfasi è la linfa della lingua italiana, che di parole è meno ricca di quello che pensiamo (soltanto 200.000 vocaboli contro i 600.000 dell’inglese, la lingua della sintesi e dell’efficacia, che paradosso) ma è dotata di decine di trucchetti per ingrandirle o rimpicciolirle, adattarle, migliorarle, peggiorarle, certe volte stravolgerle. “I lettori vogliono capire con quanto impeto si può arrivare a dare un bacio”, ha scritto John Freeman nell’introduzione a “Nuova poesia americana” (Black Coffee), dopo aver spiegato come e perché la poesia statunitense stia facendosi sempre meno politica. Dire con quale impeto si possa arrivare a un bacio è una spiegazione perfetta per il senso nuovo del rap, compreso quello dei La Sierra, che dalla forza delle parole fanno dipendere tutto: i baci, il lavoro, i ruoli, i premi, le risalite.

 

“Da quando ho preso in mano una penna ho dato vita ai nostri desideri ho dato vita ai miei mostri deleteri; parliamo con enfasi, non voglio amare se poi devo odiarti, non devi darmi se poi devo odiarti”. La vita è sogno, a patto che la si scriva. La vita è quello che sappiamo dire di lei.

 

Tutti siamo stati in visita, in viaggio, in degenza in quel gigantesco, spaventoso deserto che è il mondo quando un grande amore finisce. La persona che amiamo va via e l’universo si svuota, lentamente, e spariscono le persone, le canzoni, le parole, le bistecche, le strade, il mare, e trascolorano i colori, e si spengono le luci, e gli amici se ne vanno, e tutto vale tutto e niente vale niente. Diventiamo feriti a morte che camminano e pensano: non amerò mai più, non canterò mai più, e non mi piacerà più la pasta con la mollica fritta e neanche Shakespeare, e neanche scopare, e neanche odiare, e neanche parlare. Cantano i Sierra che invece poi torna tutto, e diventiamo capaci di baciare con la mente e pensare con le mani, se prima ci siamo impegnati a curarci da soli, parlando da soli, naturalmente con enfasi, evitando la mitezza, e i progetti scemi sul domani, che non esiste se non nelle canzoni d’amore di chi l’amore lo ha solamente sognato. Esiste il presente. E in questo paese abbiamo 200 mila parole per trasformarlo, raccontandolo.

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