Jay-Z in un concerto del 2013 (Foto LaPresse)

Dal ghetto a Obama. Così Jay-Z ha scalato la lista di Forbes dei milionari

Francesco Abazia

Il Dio del rap è l’impersonificazione moderna del sogno americano

È il maggio del 2013 quando Jay-Z, il nome con cui Shawn Carter è meglio conosciuto, acquista un quadro di Basquiat, “Mecca”, in asta da Sotheby’s per circa 4.5 milioni di dollari. Per quanto alta, la cifra non è la più alta pagata per un Basquiat né per l’opera di un artista americano (entrambi i record appartengono a “Untitled 1982”, acquistato dal giapponese Yusaku Maezawa per 110 milioni di dollari) né tantomeno la più alta per un artista afroamericano (questo record è di “Past Times” Kerry James Marshall acquistato dal rapper Sean Combs). Simbolicamente però, l’acquisto di Jay-Z è di una rilevanza superiore, perché riguarda due icone della storia recente afroamericana, due modi diversi di essere newyorchesi e di arrivare all’apice dell’entertainment americano. Se quell’apice è stato fatale a Basquiat, ha solo alimentato la fame di Jay-Z, che recentemente Forbes ha certificato come miliardario, rendendolo il primo artista hip hop (e uno dei pochi uomini di spettacolo) nella lista.

 

Prima ancora della carriera, la vita di Jay Z comincia a Bedford-Stuyvesant, al 452 di Mercy, all’interno di quei project che nell’accezione novecentesca dell’urbanistica parevano il modo migliore per governare le città. E invece, in neanche 40 anni, i project voluti dal democratico William Mercy si trasformarono in ghetti, ideali per studiare da gangsta e spacciatore. Li chiamano “hussler”, dall’altra parte dell’Oceano. Vista da questo punto di vista, quella di Jay Z, da hussler a miliardario è la versione 2.0 dell’American Dream.

 

“Il viaggio di Jay è l’impersonificazione moderna del sogno Americano. La sua ascesa offre un piano inestimabile e una continua ispirazione alle prossime generazioni di imprenditori”, ha scritto su Forbes Zack O’Malley Greenburg, il suo biografo ufficiale. Nella versione originale della sua dichiarazione, Greenburg, utilizza, non a caso, il termine “blueprint”. “The Blueprint” è il titolo del sesto album di Jay-Z, uno dei suoi più celebri, uscito lo stesso giorno dell’attentato alle Torri Gemelle e prodotto, quasi nella sua interezza, da Kanye West. Pesare l’influenza musicale di Hova (un soprannome che si è dato da solo, da Jehova e quindi J-Hova, in altri termini il Dio del rap) è quasi impossibile, così come stabilire i contorni della sua influenza su New York.

 

Durante la golden age del rap degli anni Novanta, lui e Nas, rapper del Queens, si contendevano la corona di Re, dopo che Notorious B.I.G. era stato costretto ad abdicare. E al racconto di New York e di Brooklyn Jay Z ha dedicato anche il suo ultimo album, “4:44”, in cui rivive quel processo che definiremmo – forse troppo frettolosamente – gentrificazione, e che ha ricordato ai Newyorchesi stessi il nome di interi quartieri di Brooklyn, come Dumbo, e modificato quello di altri, lì dove Bedford-Stuyvesant è ora Bed-Stuy. A Brooklyn Jay Z ha portato anche un team di basket, facendosi principale sponsor della nascita dei Brooklyn Nets, che dal noioso New Jersey si sono trasferiti in quello che è il nuovo centro del mondo, legando al brand anche la sua Roc Nation, la società di entertainment fondata in joint venture con il gigante dei concerti Live Nation, e tramite la quale gestisce i contratti di star nere come Rihanna o Kevin Durant. Tutto si va aggiungere ai suoi investimenti in cognac, in liquori e in Tidal, la piattaforma di streaming in alta qualità che ha dato battaglia ai colossi del settore. E’ stato questo a renderlo il miliardario che è.

 

Ma “cos’è meglio di un miliardario? Due miliardari”, rappa lo stesso Jay Z in “Family Feud”, rivolgendosi a sua moglie Beyoncé, e ricordando al mondo l’esagerato strapotere mediatico della famiglia Carters, capace di vendere milioni di dischi (con “Lemonade” e “4:44”) per risolvere una crisi di coppia che altri esseri umani avrebbero concluso dallo psicologo. Il potere però non è solo un fatto di soldi – per quanti miliardi possano essere – ma soprattutto politico, specialmente quando la politica promette di fare la storia.

 

Nel 2008, quando Barack Obama diventa il primo presidente nero, Jay Z realizza un remix della canzone “My President” di Young Jeezy, introducendo una strofa che Obama ha poi parafrasato per chiudere il suo discorso a Selma, nel cinquantesimo anniversario della celebre marcia: “Abbiamo onorato quelli che hanno marciato così che noi potessimo correre. Ora noi dobbiamo correre così che i nostri figli possano liberarsi”. È stato Obama a introdurre, come primo artista hip hop di sempre, Jay-Z nella Songwriters Hall of Fame, ricordando quanto avessero in comune, oltre al lungo percorso che li ha portati alla gloria: “Diciamo la verità. Entrambi abbiamo delle mogli che sono estremamente più popolari di noi”.

 

In “Decoded”, il memoir pubblicato nel 2010, Jay Z scrive: “L’identità è una prigione dalla quale non puoi scappare; per redimere il passato però non devi scappare, ma provare a capirlo, e usarlo come base per la tua crescita”. Nell’èra della politica identitaria, dell’illusione della società post-razziale, non esiste ancora una ricetta sicura per passare dai corner di Brooklyn a essere l’avamposto democratico degli afroamericani, la più credibile candidatura “artistica” alle elezioni americane. C’è quella di Jay-Z, che ha ribaltato ogni luogo comune sugli afroamericani e normalizzato l’aspirazione sociale in un paese che ne ha ancora tremendamente bisogno, rendendo sé stesso il centro di tutto: “I’m not a businessman, I’m the business, man!”.

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