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La morte di Aretha Franklin e il cerimoniale di una nazione

Stefano Pistolini

Il lungo addio dell’Altra America e dei baby boomer alla Queen of Soul

Con Aretha Franklin ancora in vita, erano già cominciate le celebrazioni per la sua morte. Avvenuta oggi, a 76 anni. Promettevano già, le celebrazioni, di diventare un affare importante, un momento di compattamento, commozione e perfino mobilitazione nel cuore della famigerata éra Trump (quale epitaffio tuitterà Donald? Ci saranno provocazioni ai funerali?).

 

Perché quella che Aretha ha incarnato – in un crescendo esponenziale con l’aumentare del dato anagrafico – è l’Altra America, adesso sconfitta e defenestrata, quella progressista e sognatrice che accomunava diseredati e radical chic, quella della presidenza Clinton (Aretha cantò “I dreamed a dream” per la sua vittoria nel 1993) culminata col doppio mandato Obama (Aretha cantò “My Country ’Tis of Thee” per la sua vittoria nel 2009, ma più della performance passò alla storia il cappello sotto il quale si presentò), adesso smobilitata dall’arrivo dei nuovi barbari.

 

Ovvio che il pericolo di passatismo aleggi pesantemente su questa malinconica vicenda. Che il prevalere del “come eravamo” dei baby boomers li spinga ora a investirsi una volta di più dell’aura di generazione-guida, in questa epoca di frustrazione. Ma, del resto, è lo stesso il materiale rappresentativo dei giorni precedenti a dettare il futuro svolgersi degli eventi: da un lato la processione di omaggianti star afroamericane (Stevie Wonder, Jesse Jackson, Al Sharpton) che le hanno reso omaggio nella sua casa di Detroit, dove si era deciso trascorresse le ultime ore circondata dai familiari; dall’altro chi, come Beyoncé e Jay-Z le hanno dedicato l’ultimo concerto o chi, come Bill Clinton si è affidato ai media digitali: “Io e Hillary abbiamo pensato ad Aretha ieri sera, ascoltando la sua musica e ricordando quanto sia stata importante negli ultimi 50 anni della nostra vita”. La mobilitazione, insomma, era in pieno allestimento: una colossale onda di emozione si è sollevata attorno all’annunciatissima dipartita della donna di colore che ha saputo alzare l’asticella della dignità per quelle come lei, e che ha acceso scintille inattese nella mente di tante sorelle ai quattro angoli del mondo, cantando “Respect”, “Natural Woman”, “Chains of Fools” e “Think”, tutte registrate ai vecchi Atlantic Studios nel momento magico a fine dei Sessanta. C’è di mezzo tutto quanto corre dal primo manifestarsi di questa ragazzina prodigio, dotata di una voce che ne faceva già a 15 anni la “Queen of Soul” sotto la severa guida di un padre, il reverendo. C. L. Franklin, che si stava affermando come uno dei più famosi predicatori carismatici dell’epoca, fino alle cronache di queste ore in cui Omarosa Manigault Newman, ex impiegata della Casa Bianca ed ex concorrente di “The Apprentice”, lo show tv di Donald Trump, pubblicizza “Unhinged” il suo libro-scandalo sulla mala condotta del presidente usando un puro linguaggio-Franklin: “Quell’uomo non ha alcun rispetto per le donne e per i neri”. Respect, appunto.

 

Aretha è la presenza immanente di lunghi decenni americani, come potremmo dire da noi vale per De Gregori o Vasco. E’ stata insignita della prestigiosissima Medaglia presidenziale per la Libertà, ha vinto 18 Grammy, ha venduto 75 milioni di dischi, prima donna nominata nella Rock & Roll Hall of Fame nel 1987, nel 2010 nominata da Rolling Stone “la più grande cantante di tutti i tempi”, battendo Ray Charles, Elvis e John Lennon. Mica bruscolini.

 

Eppure Aretha non è mai stato un personaggio facile, docile, accessibile: leggendario il suo vizio di cancellare concerti e apparizioni senza preavviso e per capricci che stavano solo nella sua testa (l’ultima apparizione in concerto risale allo scorso novembre, quando ha cantato a Manhattan per la Aids Foundation di Elton John), la sua dipendenza dall’alcolismo, i disordini alimentari, la tormentata vita sentimentale (due mariti e quattro figli, i primi quando era ancora una bambina), il terrore per gli aeroplani (“io lo capisco il Papa, che bacia per terra quando scende dalla scaletta!”), che ne ha sempre limitato le apparizioni lontano dal raggio d’azione del pullman superaccessioriato con cui accettava di spostarsi, la totale idiosincrasia verso i giornalisti, fin dal ’68, quando Time la celebrò come icona nazionale dedicandole la copertina, ma ebbe l’ardire di raccontare che la sua vita privata era a corto di “respect”, con un marito che la maltrattava dentro le mura domestiche. Il ritratto che se ne trae è quella di una personalità problematica, di una vita tutt’altro che serena, di un carattere complicato, di una psicologia irrisolta e bizzosa, spesso risolta sotto forma di ostilità nei confronti di tante colleghe da Roberta Flack a Natalie Cole, da Whitney Houston a Barbra Streisand. Eppure ciò che Aretha ha saputo cantare, il modo in cui l’ha cantato, l’atteggiamento con cui lo ha esposto allo sguardo dell’America (ricordate l’autoritaria cameriera di “Blues Brothers”?) ha stregato una nazione e si è guadagnata la devozione del mondo. Celebrando la sua appartenenza a un secolo che non c’è più, mentre si srotolava la sua interminabile agonia e ora, mentre seguiremo tutti i rituali dell’addio, è impossibile non imbattersi in un messaggio interessante: non è necessario umiliarsi per farsi apprezzare, non serve mascherarsi per piacere. La natura ci crea imperfetti, come Aretha. Ma talento, convinzione e perfino l’ostinazione fanno il resto. Anche se non si può garantire che questi principi siano ancora in vigore.

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