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il foglio della moda

Felici i piccoli lavoratori del lusso. Parla Attila Kiss

Antonio Mancinelli

A capo del Gruppo Florence, primo polo industriale integrato al servizio dei grandi brand di fatturato, c'è il manager del momento: secondo lui le cose che costano delimitano un’impronta ecologica che non solo va oltre il rispetto delle normative, ma crea un impatto positivo su tutto. Intervista via Zoom

Con quel nome e quel cognome tra il minaccioso e il sensuale – “ma guardi che in Ungheria sono molto diffusi”, avverte affabile - Attila Kiss, nato a Budapest ma da quarantun anni domiciliato in Italia dove si è laureato al Politecnico di Milano in ingegneria gestionale (dunque no, di Orban non si parla), nella vita ha deciso di baciare le seguenti, rocciose convinzioni. La prima: nell’epoca tumultuosa del consumismo sfrenato e della rapida obsolescenza, sorge una luce nell’oscurità del panorama della moda contemporanea, che è il lusso. La seconda: laddove molti vedono solo opulenza ed eccesso, lo stile ad alto valore s’innalza come ultimo baluardo della sostenibilità autentica, quella della durata senza tempo e di un benessere diffuso “grazie a stipendi adeguati, dal manager fino all’ultimo operaio, dai processi produttivi amici del pianeta alle iniziative di responsabilità sociale”. Insomma, per lui le cose che costano delimitano un’impronta ecologica che non solo va oltre il semplice rispetto delle normative, ma crea un impatto positivo su tutto.

Sotto la presidenza di Francesco Trapani, Attila Kiss, un passato come chief operating officer di Balenciaga e direttore generale di Ermanno Scervino, è l’amministratore delegato del Gruppo Florence, nato nell’ottobre 2020 (“onestamente, l’avevamo fondato prima della pandemia: poi è arrivato il Covid e ci ha costretto a fermarci, ma sa una cosa? Sono stati mesi positivi, di grande riflessione”), primo polo industriale integrato in Italia al servizio dei grandi brand di chic globale: attraverso una serie di aggregazioni, è diventato una piattaforma industriale autoctona al servizio dell'industria del lusso.

Ne fanno parte trenta aziende specializzate, per un fatturato complessivo di quasi settecento milioni di euro, circa quattromila dipendenti diffusi in nove regioni italiane che collaborano con settanta marchi planetari, a comprendere l’intera filiera produttiva dello sfarzo cosmopolita. Intervistare Kiss si rivela più complesso del previsto e non per sua alterigia o vanità, ma perché girovaga tra le “sue” ditte per sviluppare sinergie economiche e creative fornire quello che lui chiama “il livello due” delle visioni da fornire ai megamarchi. “Il punto è che ormai, se si vuole incidere su un oggetto realmente sostenibile, si deve partire da un’istruzione specifica per i direttori creativi, cui destinare già soluzioni in termini di materie e di progetti che siano sostenibili in partenza, ancor prima che scatenino la fantasia”. Tipo? “Per esempio, tramite le nostre aziende stiamo cercando di trovare nuove modalità per conciare e tingere la pelle in modo tale che fin dall’inizio non vi sia nessuna presenza di metalli nocivi. Normalmente si fa il contrario, ma è un grave errore, come sporcare un tratto di mare per ripulirlo in un secondo tempo. Invece no. Si parte da elementi già privi di inquinanti per far sì che, lungo il percorso di lavorazione, mantengano le loro qualità primarie”.

Quando la sua figura si rapprende sullo schermo del computer, il volto di Kiss assume le sembianze del volto buono del capitalismo. Sincero, davvero crede sia possibile realizzare una moda di fascia altissima che sia davvero molto o zero inquinante? “Ma certo. Ovvio, ci vogliono soldi per tutti i dispositivi meccanici e metodologici che permettano un processo che non vada in collisione con l’ambiente. Per comprarli, le piccolissime realtà imprenditoriali dovrebbero rinunciare ai guadagni. Ma lì arriviamo noi, mettendo in connessione differenti imprese che si possono dare una mano a vicenda o addirittura, decidere di dividersi i costi per arrivare a un prodotto “pulito”. Siccome tutti gli imprenditori coinvolti sono interessati all’andamento dell’intero gruppo pur restando alla guida operativa del loro business, sono previste forme di incentivazione legate non solo ai risultati dell’impresa di proprietà di un singolo, ma anche al contributo che proprio il singolo offre agli altri componenti. Non bisogna eccellere solo nel prodotto, quello già c’è: bisogna andare oltre. Per cui le nostre aziende non stanno solo parlando di riduzione delle emissioni di carbonio o di tessuti riciclati - lo fanno, punto e basta”.

Ma quello delle vostre aziende non potrebbe essere un modo per attuare la strategia del greenwashing, ovvero il tentativo di dare un’immagine eco-sostenibile che nasce da tendenze sociali e dalle pressioni dei consumatori, per comunicare pratiche ambientali che non sono messe in pratica o non sono corrette? “Sta scherzando?”, s’adonta lui: per scherzo, ma mica poi tanto. E spiega come nel gruppo tutti aderiscano alle pratiche ESG, cioè “Environment”, “Society” e “Governance”, vale a dire l’insieme specifico di criteri come l’impegno ambientale, il rispetto dei valori aziendali e l’attenzione a notare se un’azienda agisce con accuratezza e trasparenza o meno. “Ci impegniamo ad adottare un approccio circolare che favorisca la riduzione degli scarti, il nostro obiettivo è scollegare la crescita economica dall’uso delle risorse naturali, rispondendo alla crescente domanda di consumatori finali sempre più consapevoli della necessità di difendere la Terra. Abbiamo avviato un progetto di misurazione e una piattaforma volta a valorizzare l’intera catena di fornitura, riducendo le inefficienze, i rischi ambientali, quindi migliorando la performance”.

Kiss crede molto nella creazione di figure professionali che oltrepassino la mitologia del direttore creativo: “Investire nella formazione per il settore moda è cruciale per avvicinare i giovani all’artigianalità e rinobilitare il ruolo del settore manifatturiero all’interno del panorama produttivo italiano”, ha scritto in una nota per la stampa a proposito del progetto “Academia Diffusa” per i calzolai del futuro, realizzato a Firenze in collaborazione con Taccetti, realtà familiare di Montelupo Fiorentino, e con l’Istituto Polimoda.

La sua facoltà nel mantenere una serafica calma permane anche quando gli facciamo notare che, volendo, anche l’acquisizione di piccole e medie aziende da parte di un grande polo come quello di cui è amministratore delegato possa venir ritenuto inquinamento culturale, dato che le suddette aziende poi finiranno per lavorare per mastodonti del lusso e non più per designer indipendenti o non dotati di grandi capitali: “Ma all’Italia mica fa male che le major della moda diano lavoro alle maestranze di minuscole realtà industriali, assicurano loro un lungo futuro. Certo, una volta acquisite perdono imprenditorialità, ma c’è l’opportunità che il know-how resti radicato sul territorio e che non siano licenziati i lavoranti più esperti perché sono gli unici in grado di realizzare un prodotto di qualità. Ecco, sarebbe un pericolo se una multinazionale investisse denaro e poi spostasse la produzione all’estero: ma per il lusso ci vogliono tempo, saperi, competenze. Non stiamo parlando di catene di montaggio, dove con tre mesi di workshop si riescono a formare operai specializzati”. Sorride. Insistiamo: come la mette con i dissidi generazionali delle aziende a conduzione familiare, le strutture che formano la spina dorsale del Made in Italy? “Uno dei temi più urgenti in un’aggregazione come la nostra è proprio quello della successione. Facciamo di tutto perché i nostri imprenditori arrivino pronti al ricambio. L’anno scorso diciannove protagonisti delle seconde generazioni sono andati a Cernobbio. Sa, è importante imparare dai propri genitori, di sicuro: ma lo è ancora di più allargare i propri orizzonti. Lavoriamo su un principio molto facile: il mondo del lusso ha come epicentro l’Italia, e dovrebbe essere interesse di tutti, oltre che di Gruppo Florence, far sì che rimanga qui”.

A proposito: quanto ha inciso l’essere ungherese di nascita e italiano d’adozione, nel suo lavoro? “Moltissimo. Mi permette di sentirmi italiano a tutti gli effetti, ma nello stesso tempo mantengo una certa distanza che mi regala una visione più rotonda. E me lo fa amare di più”. Ma il Made in Italy è composto da marchi che non sanno fare sistema… Almeno questo lo deve ammettere. “Assolutamente. Anche se il nostro motto è “Il tutto è più della somma delle singole parti”, è vero: non fate sistema. Sarà forse il motivo per cui che mi sono sentito accolto con calore dagli imprenditori italiani, almeno geograficamente sono sempre stato super partes… Però, vede, anche riconoscere i difetti è importante perché sono le imperfezioni a renderci interessanti: nel vostro caso, per esempio, ammiro la vostra capacità di risolvere piccoli problemi tutti i giorni. Alla fine, il risultato è una fantastica duttilità e la voglia di non arrendersi”. Riguarda anche sua moglie milanese? “Sicuro. Infatti, parla benissimo ungherese. Come i miei figli, che hanno un doppio passaporto”.

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