L’inquadratura finale dello spot “The challenge”, ideato da Emanuele Pirella

Il foglio della moda

Corsi e ricorsi nel business dello stile. La grande sfida alla storia della moda

Fabiana Giacomotti

Fiorucci, Walter Albini, Vuarnet. L’unico settore industriale che postula il futuro nella propria ragion d’essere è anche quello che più guarda al passato, investendo su marchi decotti, mal gestiti e scomparsi nell’errata convinzione che basti il marketing per riportarli al successo. Come spiega il più famoso dei maghi della rinascita, Marco Boglione di BasicNet

Nel 1996, quando il mondo era ancora analogico e in famiglia si andava a tavola tutti insieme per raccontarsi la giornata perché solo i cafoni illetterati avevano la televisione in sala da pranzo e la tenevano accesa ingollando meccanicamente le pietanze, per il rilancio del marchio Superga il compiantissimo Emanuele Pirella si inventò lo spot di una protesta sociale così violenta che nessuno in questa epoca violentissima oserebbe fare; un po’ per i costi, perché agenzia e regista, lo stesso Tarsem Singh che qualche anno dopo avrebbe diretto il visionario “The cell”, non si fecero mancare nemmeno gli elicotteri (erano anni favolosamente ricchi), un po’ perché a rivederlo adesso quel filmato sembra anticipare, pur nell’impianto cinematografico curatissimo e come sempre nella pubblicità un po’ estetizzante, le riprese disgraziatamente reali degli scontri del G8 di Genova.

Cercandolo su Youtube, dove si trova ancora, commentato solo dalla colonna sonora di “Firestarter” dei Prodigy, lo spot riprende appunto gli scontri in una fabbrica fra protestanti mascherati da animali e forze di polizia. Finito per caso in mezzo alla bagarre, un attempato riccastro con autista cerca di transitare sulla sua auto blindata fra agenti dati alle fiamme (eh), cavalli travolti (eh doppio), lacrimogeni e manganelli (ops), e si vede atterrare sul cofano dell’auto un manifestante che indossa una maschera da coniglio e che nella colluttazione con un agente perde una Superga bianca. All’arrivo a casa, dove tutta la famiglia lo aspetta seduta al desco, nel raccogliere il quotidiano che la figlia gli ha fatto cadere sotto il tavolo, l’attempato riccastro si accorge che ha un piede scalzo.

 

Schiaparelli ha galleggiato in un limbo onerosissimo per oltre un decennio

 

Favola di una Cenerentola ribelle e allegoria di una società che si apprestava nuovamente a cambiare, trent’anni dopo il Sessantotto (“Superga. O si ama o si odia”), lo spot “The challenge” segnò la fase di recupero stilistico e di immagine di un brand al tempo stesso chic e popolare che, dopo un ultimo soffio vitale nei primi Anni Ottanta, ai piedi delle paninare più à la page, era andato esaurendosi fino all’insipienza. Marco Boglione sarebbe arrivato a rilevarlo nel 2007, dopo averne guidato le sorti per anni come licenziatario mondiale, quando la sua BasicNet era già quotata e del suo portafoglio marchi facevano già parte il gruppo Kappa, con Robe di Kappa, e KWay, uno dei pochissimi “marchi ultranotori”, cioè creatori di patronimici come Aspirina, Walkman o Frisbee.

“Chiama Boglione, lui adora rivitalizzare marchi decotti”, mi ha suggerito un grande investitore pochi giorni fa, quando gli ho spiegato che mi sarebbe piaciuto analizzare l’evoluzione del fenomeno dei fashion zombie, quel contraddittorio processo strategico, ma più spesso solo tattico, che porta un settore innovativo per sua natura come la moda a investire poco nei giovani e molto in marchi dimenticati, stravolti da cattive gestioni, talvolta scomparsi da decenni. Prendete Walter Albini, acquisito pochi mesi fa da Mayhoola, il fondo sovrano del Qatar, e provate a interrogare uno studente di moda italiano, anche nato a Busto Arsizio come lui: dieci a uno, non saprà nemmeno che ad Albini si deve la nozione di stilista e di tutto il suo corollario in termini di marketing, merchandising, comunicazione, oltre naturalmente a ignorare la data della sua morte, il 1983, perché forse a quella data la stessa madre dello studente era una ragazzina che comprava da Fiorucci (a proposito) e indossava le felpe di Best Company. Acquistare un marchio morente, o caduto nel dimenticatoio, in anni di prevalenza dei media e dei social come questi, è un vero azzardo che rischia di trasformarsi rapidamente in una situazione “loose-loose”, in cui l’imprenditore deve trattare un marchio storico e talvolta onusto di gloria e di storia come fosse integralmente nuovo e innovativo per intrigare i clienti più giovani, vedendosi quindi costretto a investire palate di denaro, rispettandone però al contempo integralmente anche i codici storici, talvolta archivistici, per non vedersi saltare addosso storici del costume e critici di moda inviperiti e clienti centenarie mortalmente offese.

Nel primo decennio del Duemila, in cui un abilissimo avvocato francese fece incetta di marchi defunti piazzandoli poi a grandi e medi imprenditori bisognosi di qualificazione modaiola nell’olimpo della couture, le riesumazioni si succedettero a ritmo serrato, giungendo quasi sempre a una nuova tumulazione, vedi il caso di Worth o di Vionnet, passata dapprima per le mani di Matteo Marzotto, e poi di quel curioso profilo di investitrice-socialite che risponde al nome di Goga Ashkenazi, a sua volta finita nel dimenticatoio già prima del Covid. Oltre a Moncler, che al momento dell’acquisizione di Remo Ruffini era in avanzato stato di decomposizione gestionale ma di certo ancora vivo nell’immaginario, almeno europeo, chi ha resistito, nonostante le difficili premesse e una serie di scelte creative fallimentari, recuperando terreno fino all’attuale rilancio mondiale, è in realtà solo Schiaparelli: acquisita nel 2007 da Diego Della Valle, ha galleggiato in un limbo onerosissimo per oltre un decennio, cioè fino a quando, nel 2019, la nomina di Daniel Roseberry alla direzione creativa ha finalmente permesso di rilanciarne le sorti, riportandola al centro non solo del sistema commerciale della moda, ma anche del cosiddetto “fashion discourse” che interessa agli storici: nessuno, ormai, si sogna più di perdere una sfilata di Schiaparelli, che oltre alla couture ha potuto avventurarsi anche nel pret-à-porter, come peraltro fece la fondatrice Elsa.

La ceo di Schiaparelli, Delphine Bellini, ha preferito non rilasciare dichiarazioni sul turn around del marchio, per cui ne parlo con Boglione che, pur avendo lasciato ai figli Lorenzo e Alessandro la gestione quotidiana del suo gruppo (“sto concentrandomi sul ruolo di azionista di controllo, monitorando il passaggio generazionale”, ride), indica in “un’azienda forte a sostegno” uno dei fattori chiave di rilancio di un marchio storico: “Senza un’impresa solida e una famiglia come i Della Valle alle spalle, Schiaparelli non ce l’avrebbe fatta”, osserva (Schiaparelli è investimento di famiglia, come a lungo lo è stato Christian Dior per gli Arnault). Ma il fattore fondamentale per il successo di queste operazioni, puntualizza Boglione, è ancora un altro: “Per rilanciare un marchio, è necessario che fosse stato lanciato”. Si tratta di un’osservazione lapalissiana solo in apparenza, che molti non si sono evidentemente fatti al momento della valutazione, perché se con il tempo e il denaro e buoni consulenti si può certamente insufflare nuova vita in un brand dotato di una grande storia e di un substrato ricco e importante, farlo in condizioni di partenza opposte, o parziali, è del tutto impossibile. “Bisogna ripercorrere la storia del marchio, capire per quali problemi abbia interrotto la propria crescita o sia scomparso - in genere le cause non sono addebitabili al marchio stesso – ma dev’ esserci un’azienda e una storia, una romance ancora viva” con i clienti di un tempo e ipotetica con quelli potenziali, e questo postula anche un “fattore tempo” che il fondatore di BasicNet definisce al tempo stesso dirimente e limitato, come peraltro dimostra il caso di Worth: che portasse il nome del fondatore della haute couture Charles Frederick Worth, prima lezione di storia della moda, non è stato sufficiente per rilanciarlo, forse addirittura controproducente, tanto che dopo pochissime stagioni il marchio è scivolato nella produzione di lingerie, forse nella convinzione che una maison nata in anni di corsetti e tournure potesse trovare nelle stecche e nelle culotte una nuova ragion d’essere, e quindi è scomparso, sepolto negli abissi della storia.

L’ordine del tempo, per citare il saggio di Carlo Rovelli da cui è stato tratto il brutto film di Liliana Cavani appena presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, sarà una dimensione irreale per i fisici, lo era certamente per i filosofi come Henri Bergson, ma sembra non esserlo per la moda, che può certamente gettare ponti sul passato, ma non può rendere questo sforzo archeologico. Qualche anno fa, un’azienda francese tentò per esempio di rilanciare le fragranze amate dalla regina Maria Antonietta, di cui esistono tuttora le composizioni oltre al nome del “naso” che le creava, Jean Louis Fargeon: il sentore di quei profumi era troppo lontano dai gusti attuali, troppo carico, troppo fiorito, con un’ incredibile nota olfattiva di candele e di sudore acre, di certo suscitata per associazione mnemonica con le lettere e i racconti dell’epoca che molti hanno letto, ma comunque evidente; i profumi erano insomma improponibili a un pubblico del terzo millennio, e con ogni probabilità l’iniziativa non ottenne nemmeno la copertura mediatica che il produttore si aspettava. Forse è per questo che due giorni fa, annunciando l’acquisizione di Vuarnet, l’azienda di occhialeria Thélios di Longarone, che fa capo a Lvmh, si è premurata di inviare alla stampa e gli investitori non le immagini delle star del passato che li hanno indossati, primo fra tutti Alain Delon (e non dimentichiamo i soliti paninari milanesi quarant’anni fa), ma quelle degli attori cool di oggi che continuano a preferirli ad altri brand oggi più blasonati come Daniel Craig e Vincent Cassel.

 

"Prima di rilanciare un marchio verificare che fosse stato lanciato”

 

Dice Boglione, da tempo impegnato con la moglie Stella nella trasformazione dell’Isola di Culuccia, o Isola delle Vacche, a margine dell’arcipelago della Maddalena, in un’oasi naturalistica autosufficiente dotata di un osservatorio e in un’azienda di prodotti agroalimentari di altissima qualità, la Biru srl (“ho scoperto da poco che il mio attuale impegno rientra nel segmento del natural equity”, ironizza), che basare queste operazioni sul marketing, è e resta l’errore più grave: “Il marketing arriva dopo, cioè dopo un’azienda in grado di sostenere e guidare cambiamenti e rilanci”. Non bastano nemmeno i soldi. Ci vuole l’organizzazione e una rete produttiva solida, che è anche il segno dell’attuale strategia di acquisizione di piccole aziende di eccellenza della filiera da parte dei grandi gruppi, e anche la ragione per cui la Giorgio Armani spa resta l’azienda più appetita, il sogno acquisitivo dei gruppi mondiali: non tanto e non solo per l’eccezionale contributo all’evoluzione della moda e la straordinaria bellezza dei capi, di cui si è avuta prova una settimana fa a Venezia per una delle sue One Night Only, dei suoi unicum di rappresentazione e di celebrazione, ma per il solido network produttivo, che rende l’azienda sostanzialmente autoufficiente. Ecco: Armani avrebbe potuto acquistare un marchio storico e riportarlo allo splendore originale. Ma è sempre stato troppo impegnato a guardare avanti.

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