il foglio della moda

Lunga vita alla moda. La buona pratica del riuso

Fabiana Giacomotti

Un capo upcycled azzera quasi le emissioni di CO2. Ma per garantire il riutilizzo senza troppe trasformazioni costose e inquinanti è necessario riequilibrare la catena del valore e anche sviluppare una nuova cultura dell’abito, come emerge dalla ricerca internazionale condotta da Kearney per celebrare il terzo anno del Foglio della moda

Un jeans di recupero, upcycled, emette fino all’83 per cento di Co2 in meno rispetto a uno prodotto in modo tradizionale, che in genere significa: tessuto con materie prime, cioè con cotone, egiziano; prodotto con filati e tessuti del Pakistan; tagliato e cucito del capo, compresi i processi Wet & Dry (lavaggio, tintura, trattamenti), oltre a finitura e imballaggio, in Cina; distribuito in Italia. Alla fine delle belle locuzioni, delle parole alla moda, della terminologia anglosassone che agli italiani piace tantissimo benché gli americani facciano davvero fatica a distinguere fra moda upcycled, moda recycled e vogliano solo sapere dove buttare via le t shirt sformate, restano le buone pratiche. Le “best practice” come le chiamiamo sempre noi esterofili. E l’esempio che Edmond Climate Network e Kearney portano a questo nuovo convegno annuale del “Foglio della Moda” che da oggi entra nel suo terzo anno di vita, ancora una volta sviluppato attorno a un tema preciso, evidenzia in modo chiarissimo come l’upcycling, il recupero del già esistente, che è già tantissimo e sta soffocando la Terra, sia la strada più efficace, benché certo non l’unica, per mantenere il difficilissimo equilibrio fra la produzione di “nuovo”, che è condizione necessaria per mantenere livelli di occupazione elevati e l’interesse da parte di chi questa produzione deve acquistare (poche ore fa il gruppo Prada ha annunciato un piano di assunzioni su scala nazionale sul territorio toscano, umbro e marchigiano, che prevede l’inserimento di oltre quattrocento risorse entro la fine del 2023), e al tempo stesso tentare di inquinare di meno.

 

Recuperare il già esistente, trasformarlo e renderlo di nuovo attraente, ma non attraverso il riciclo di fibre, che è processo estremamente invasivo, costoso e sua volta non di rado altamente inquinante, bensì grazie al recupero e alla trasformazione di tessuti e capi già esistenti. Un procedimento che brand e maison come Miu Miu, Valentino, Etro, Chloé hanno già adottato con ottimi risultati, ma che può partire solo da tessuti o capi di ottima qualità. L’estetica del cappotto rivoltato, per dirla con una locuzione e un immaginario comune fra chi ha l’età per decidere strategie e design, deve partire dalla qualità del cappotto. E per arrivare alla ri-valutazione della qualità nella scelta bisogna rieducare, letteralmente, un’intera generazione che si è abituata ad acquistare stracci a poco prezzo e di vita brevissima, senza pensare alle conseguenze del suo gesto.

 

I ventenni di oggi che sfilano contro i governi che “non fanno abbastanza”, sono gli stessi che, terminato il corteo, vanno a smaltire l’adrenalina in una catena fast fashion per l’uscita del sabato sera. La ricerca curata dal principal di Kearney, Dario Minutella, con il Kearney Consumer Institute per “Il Foglio della moda”, fra Italia, Francia e Stati Uniti, su una base molto estesa di 2200 persone (mille Oltreoceano, gli altri equamente distribuiti nei due paesi europei) di età superiore ai sedici anni, lo mette in evidenza in modo chiarissimo: sebbene Francia e Italia siano certamente più avanzate degli Stati Uniti nelle prassi di riuso e riutilizzo, manca ancora a tutti quel genere di cultura dell’abito che un tempo, cioè nei secoli precedenti alla rivoluzione industriale, gli garantiva una vita lunghissima, dal passaggio generazionale fino alla rivendita e alla trasformazione. Come ovvio, questo genere di durata e di uso non si può più replicare. Quello che, come sottolinea anche Minutella, è però praticabile, è un nuovo atteggiamento, definiamolo pure un nuovo rispetto, nei riguardi dell’abito e di chi l’ha creato. E questo risulta evidente dalla scarsissima pratica di “riconsegna in boutique” dei capi acquistati, opzione posta agli intervistati fra le tante possibili riguardo alle opportunità di riutilizzo degli abiti. Le iniziative poste dalle aziende a favore della circolarità dell’acquisto, fino a oggi, sono state infatti pochissime, anche e nuovamente per il semplice motivo che nella stragrande maggioranza dei casi questi capi non hanno alcun valore intrinseco che ne renda interessante, utile e valido il riciclo. Su una base di intervistati che per la stragrande maggioranza ammette candidamente di non pensare affatto alla “seconda vita” del capo che sta acquistando (fino al 39 per cento negli Stati Uniti capi dichiarati “in buono stato”, negli Usa si regalano fino all’81 per cento (per il 70 per cento in Francia e per il 69 per cento in Italia), vi sono però differenze fra un paese e l’altro che rivelano come l’educazione del cliente, insieme con la cultura industriale, siano fondamentali nell’orientamento verso le “best practice”. Sottolinea Minutella di essere rimasto molto favorevolmente sorpreso dall’evidenza che i consumatori italiani privilegino i capi realizzati in Italia (39 per cento del panel) e quelli in tessuto organico / naturale (35 per cento) o riciclato (28 per cento) in misura maggiore rispetto ai francesi o agli americani, che invece e fino al 45 per cento dei casi hanno una netta preferenza per capi di seconda mano o vintage. La cultura di una nazione, la sua storia, la sua abitudine al benessere e al suo uso si leggono anche da queste cose. Gli americani passano infatti volentieri i capi usati in buono stato a familiari ed amici (fino al 49 per cento Oltreoceano, poco meno negli altri due paesi considerati), ma hanno una cultura dello scarto senza costrutto ancora esagerata.

 

La prassi di rivenderli è maggiormente praticata in Francia (fino al 54 per cento), seguita dall’Italia (38 per cento), mentre resta al 30 per cento negli Stati Uniti che, vale la pena sottolinearlo, non sono rappresentate da New York, San Francisco e Los Angeles, ma dalla stessa immensa federazione di stati dove può capitare che un’insegnante della Florida venga licenziata perché ha mostrato alla classe il David di Michelangelo, un uomo nudo. Il Paese meno virtuoso nel trattamento riservato al proprio guardaroba fra i tre considerati sono proprio gli Stati Uniti: sono quelli che meno offrono loro una seconda vita riparandoli (lo fa solo il 17 per cento degli intervistati), e quelli che, a domanda precisa, non saprebbero nemmeno come o dove riciclarli: cassonetto dove sei, ma anche che-cosa-ci-guadagno. Per una buona percentuale di intervistati, in particolare in Francia, la possibilità di ricevere qualcosa in cambio (buoni acquisto, denaro) è infatti l’incentivo principale per spendere tempo ed energie attorno a una giacca o un paio di pantaloni.

 

La maggior parte del panel, in questo caso specialmente gli italiani (31 per cento) dichiara invece di non sapere come riciclare il proprio guardaroba. E manca tuttora la cultura di base, o per meglio dire e ancora si è persa, attorno alle materie prime: quasi la metà degli intervistati si dichiara incapace di distinguere fra un capo di filato o tessuto nuovo o uno di riciclo o di upcycling, e naturalmente di valutarne la qualità. Sono gli stessi convinti che si ammazzino mucche e vitelli per farne scarpe, senza riuscire a collegare alla pelle delle calzature l’hamburger che si stanno infilando in bocca. E’ arrivato il momento del Rieducational channel, e purtroppo senza poter far ricorso allo spirito di Corrado Guzzanti.

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