La campagna pubblicitaria con gli scatti della fotografa Zhong Lin, dal sito Isamaya.com 

cover innovative

Il rossetto maschio: la rivoluzione di uno sguardo che è tutto femmina

Fabiana Giacomotti

Le nuove confezioni della star del trucco Isamaya Ffrench non lasciano spazio all’immaginazione. Così si evolve l’estetica della virilità: la rappresentazione del sesso maschile appartiene ora alle donne

Disclaimer sulla terminologia che verrà usata per questo articolo. Non userò la parola con la C perché qui al Foglio rischiamo poi di incappare nelle maglie della censura quando verrà caricato online e reso disponibile sui social, ancorché Makkox faccia ampio uso della parola con la C, scrivendola però a mano e forse è questo che fa la differenza e gli permette di sfuggire alla buoncostume di intelligenza artificiale dei social (la scrittura a mano è più chic e distinta, si sapeva). In via generale, diciamo che nessun piccolo C verrà maltrattato in questo articolo e nemmeno lo saranno i suoi due compagni di avventura, che la medicina generale definisce testicoli, definizione che, lo ammetterete, si presta a molte simbologie e declinazioni sessiste, visto che l’etimologia rimanda al concetto di testimonianza, testicoli uguale testimoni di virilità, insomma una cosa affine alla parola, e ci siamo detti tutto. Questo non è comunque un articolo contro la parola con la C. Come dice sempre Dagospia, anzi, l’organo sessuale a cui rimanda la parola con la C è quello che piace alla maggioranza umana, ambosessi e declinazioni varie. Da cui, in effetti, nasce la tendenza al C vincente dopo anni di relativo oblio di cui si scrive dopo questa necessaria premessa.

  

Detta in forma semplice e diretta, modello Ansa, la notizia è la seguente: per promuovere la sua nuova linea di rossetti, Isamaya Ffrench, l’unica truccatrice che possa contendere il primato di star mondiale del make-up a Pat McGrath, ha incaricato un artista e una società di progettazione di fabbricare un pene in fibra di vetro alto circa quattro metri. I due rossetti che vende a marchio Lips, per il momento un punto di rosso acceso, “Cardinal”, e un nero “universale” definito “Vanity”, vanitas omnia eccetera evidentemente (la ragazza arriva da Cambridge e ha studiato alla St Martin’s), sono contenuti in una riproduzione in scala dello stesso oggetto, che si apre dal prepuzio e si passa sulle labbra tenendolo saldamente per le palle, come mostra la campagna fotografica, scattata con la dovuta gravitas dalla fotografa malese Zhong Lin, professionista di riferimento di Katie Grand, la stylist prediletta da Diego Della Valle, e membro della stessa squadra editoriale di cui da parte Isamaya, quella di “Dazed”.

 

L’oggetto stile Brancusi-meets-fetish, rivisitazione dell’orribile fallo di “Arancia Meccanica” e dell’estetica dei drughi, che si ispirava alla minacciosa braghetta cinquecentesca, pesa tre etti, data dal peso specifico della lega di metallo in cui è realizzato (sottotesto: le misure e il peso contano) e costa novantacinque dollari. Se voleste andare a cercarlo sul web, dove si vende da meno di una settimana, vi rendereste conto che farselo spedire in Italia è meno facile di quanto sembri, sapete la questione dei dazi, della tipologia di oggetto, eccetera, ancorché, come quasi tutto il make-up mondiale di qualità, anche il rossetto fallico sia prodotto in Italia e, mi dicono amiche del giro Cosmetica Italia, branca di Confindustria, specificamente a Crema, cioè in Lombardia. 

 

Dunque, scendendo un po’ più in profondità, la notizia è che Isamaya, che è parecchio più bella delle sue clienti fra cui figurano Madonna e Miley Cyrus, tanto da interpretare da sola le proprie campagne video e che per questa si è fatta ritrarre avvolta nel latex rosso mentre si aggrappa al mega-fallo come un tempo Sarah Bernhardt al sipario (anche in questo caso, il sottotesto è lo stesso), ha scelto di fare leva sul sesso esplicito per vendere due rossetti che si fa fabbricare in Italia, esattamente come fanno tutti gli altri brand della bellezza. In sé e per sé, non è una gran notizia, dopotutto a Napoli vendono da decenni pasta secca a forma di micro-fallo ai turisti in sacchetti da un chilo, anche a strisce tricolori come la bandiera volendo, e se continuano a farlo non c’è dubbio che tanti la trovino una cosa divertentissima, che magari la acquistino in quantità pregustando come la serviranno agli amici e poi, una volta rientrati nella casetta monofamiliare in Arkansas, decidano di nasconderla alla vista dei bambini esattamente come farebbero col rossetto di Isamaya, per il quale si consiglia, altra bella trovata del marketing, un uso non troppo pubblico. Un rossetto per uso privato come il dildo o come la pistola in tasca della battuta apocrifa (no, non era di Mae West, che la pronunciò davvero già anzianissima nel film “Sextette” di Ken Hughes, anno 1978, e non in “Lady Lou” del 1933 come credono in tanti: le battute nascono anche per partenogenesi) è davvero una trovata interessante, ma più per i risvolti sociologici che implica che per il fatto in sé. 

 

La vera notizia, oltre i biscotti, la pasta, e perfino oltre il rossetto di Isamaya Ffrench che il designer Giulio Ceppi, citando Jean Baudrillard, ritiene abbastanza banale, cioè un ennesimo declassamento dell’erotismo in pornografia, è infatti che tutte queste manovre siano condotte da una donna, cioè un’altra para-artista che va ad aggiungersi a Betony Vernon nella creazione di oggetti fallici gloriosi a fini espositivi, artistici e ludici per il grande pubblico. Cioè il pubblico che non necessariamente frequenta le gallerie, i musei, e ignora l’esistenza di Louise Bourgeois e di Cynthia Albritton, nota per tutti i Sessanta e i Settanta come Cynthia Plaster Caster, la donna che eseguiva i calchi in gesso dei peni – meglio se eretti – delle rockstar, primo in lista quello di Jimi Hendrix. Nessuna delle due è più con noi a raccontarci perché trovassero la rappresentazione dominante dei genitali maschili argomento così interessante al di là di quello, che ovviamente non c’entra niente ed è già stato ampiamente esaminato da Sigmund Freud, di un’invidia psicologica e ancestrale che poteva avere un senso sociale, storico ed economico a cavallo del Novecento, ma che oggi inizia a non reggere più alla propria stessa teoria. 

 

Alla presunta ossessione femminile per il pene e a tutti i lunghi secoli in cui l’arte e la letteratura hanno rappresentato l’immagine della donna fatale come specchio del timore maschile della castrazione, si è sostituita un’estetica forse maliziosa ma per nulla moralista dell’organo sessuale maschile. Qualche tempo fa, l’illustratrice Francesca Lipari ne trasse perfino un libriccino garbato e spiritoso, “Il pisello. La vita vista da lui”, che le signore acquistavano nelle boutique multibrand e regalavano alle cene come, per secoli, gli uomini si sono scambiati immagini di ragazze discinte e l’estetica sessuale femminile ha dominato ogni aspetto della rappresentazione a fini commerciali, di vendita, cioè di possesso.

 

La rappresentazione del sesso maschile di oggi è lontanissimo dalla simbologia, anche religiosa, che lo accompagna dai tempi più antichi e che, non a caso, è di ispirazione e cultura maschile. L’altra sera se ne osservava qualche cascame all’Opera di Roma nella scena della consacrazione del khopesh di Radamès, la spada-falcetto, al tempio di Iside, fra le sacerdotesse in estasi per il potere generatore dell’immenso Fhtà, in un’“Aida” per cui il regista Davide Livermore si è ispirato al film “Cabiria” di Pastrone, che era poi un adattamento del dramma di D’Annunzio ispirato a sua volta alla “Salammbo” di Flaubert, e dunque e di nuovo un’allegoria delle fatalità a cui le femmine ammaliatrici conducono gli uomini. Il decadentismo in scena è sempre bellissimo da vedere, tutto ori e piume e occhi bistrati e perfino i Giovanni Battista con il dhoti coperto di polvere sui fianchi e il petto nudo, bellissimo, ma nel mondo fuori dai palcoscenici anche il sacro lingam e tutti i suoi parenti più o meno prossimi sparsi fra i templi e le chiese stanno perdendo l’aura sacrale che sottende alla procreazione per approcciare i territori, per carità non meno scivolosi però un po’ meno patriarcali, dell’estetica. 

 

Magari vi sarà sfuggito, ma provate a mettere insieme tutti i “full frontal” maschili che i serial e il cinema ci hanno proposto negli ultimi mesi, da “The White Lotus” a “Sex & the City” a “The Righteous Gemstones” e “Red Rocket” e vi renderete conto che le polemiche e le allusioni che seguirono alle inquadrature di Michael Fassbender nudo e a gambe aperte in “Shame”, dieci anni fa, faticano perfino a registrare un minimo di pruderie. “It’s time for male genitalia exposed”, mi scrive l’amico fotografo americano, cresciuto osservando i peni abnormi di Robert Mapplethorpe, che la morale inclusiva di oggi definirebbe come minimo di ispirazione colonialista. È deliziato di questa evoluzione “women driven”, cioè guidata dalle donne, ma se vogliamo anche omosessuale maschile, di un patrimonio estetico, culturale e sociale che anticamente apparteneva esclusivamente agli uomini, prevalentemente cis. Siamo un passo oltre le trovate di piccolo cabotaggio del rapper Rosa Chemical a Sanremo in patchwork Moschino (“voglio portare sul palco il sesso, amore poligamo e il porno su Onlyfans”, basta anche meno, grazie), che fra tre settimane tutti ricorderanno giusto giusto perché una tal deputata di Fratelli d’Italia, con la solita capacità del partito di non azzeccare una strategia di comunicazione neanche per sbaglio, ha tentato di bloccarne l’esibizione. 

 

Siamo un passo avanti anche rispetto al geniale “vestito senza vergogna” di Chiara Ferragni, una che invece non sbaglia mai una mossa, e cioè il fourreau di tulle color carne con le fattezze del suo corpo nudo ricamate in trompe l’oeil nell’atelier di Dior, manifesto e dichiarazione sui diritti all’uguaglianza di genere e sulla libertà di essere e indossare ciò che si desidera in un mondo dove questa possibilità è ancora negata a centinaia di migliaia di donne. Sono molte le ispirazioni che, lungo tutto l’arco del Novecento ma in particolare in epoca surrealista, hanno portato alla realizzazione di quel vestito che ora resterà inscritto nella memoria del festival come la pancia posticcia e aliena di Loredana Berté in “Re”, anno 1986, ripresa molti anni dopo da Lady Gaga. 

 

E il primo riferimento per quell’abito e per tutti i look di Chiara Ferragni nella prima serata del Festival 2023 è il celebre dipinto “Le viol”, cioè lo stupro di René Magritte, anno 1934, manifesto contro la crudeltà del mondo e del mondo al maschile che sempre è passata attraverso la violazione del corpo femminile. Leggere oggi, novant’anni dopo, la descrizione che ne fece l’artista (“il viso serve per avvicinarsi all’amore, ma qui è incarnato nel corpo. Una donna va amata nel suo insieme, sia il suo viso sia il suo corpo. Tuttavia, in contrasto con questo, il busto sovrapposto al viso – i seni ti guardano come occhi, il naso è atrofizzato nell’ombelico e la bocca del pube sembra contorcersi in una smorfia – non solo non serve a portare lo spirito nel principio carnale, ma, al contrario, significa il degrado di una donna al livello dell’oggetto del desiderio sessuale: gli accecati, i muti e i sordi”) e osservare l’abito della Ferragni oggi, significa prendere atto che vi è stato uno spostamento di sguardo sul pene: dal maschile al femminile. Che non significa affatto depotenziarne l’effetto, se è questo a cui molti uomini, leggendo queste righe, penseranno. Ha semplicemente meno l’aria di un’imposizione. Meno di quell’aura sacrale “it’s for worshipping, madam”, come mi indicò molti anni fa una guida davanti al grosso lingam rimasto miracolosamente eretto, non è una battuta, fra le rovine di un tempio nel mezzo di un bosco in Cambogia.

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