il foglio della moda

Sace dice di stare tranquilli, la de-globalizzazione non c'è

Mariarosaria Marchesano

“I dati suggeriscono che, a differenza di quanto successo con la crisi finanziaria del 2008, gli scambi internazionali sembrano aver mostrato una maggiore resilienza allo choc pandemico", dice il capo economista della società che assiste l’export italiano

“Non siamo di fronte a una deglobalizzazione della moda, ma in una fase di parziale ripensamento del sistema produttivo globale che è iniziato già da qualche anno e che pandemia e guerra russo-ucraina hanno accelerato”. Alessandro Terzulli, capo economista di Sace, società che assiste l’export italiano passata da poco sotto il controllo del Mef dalla Cassa Depositi e Prestiti, spiega al “Foglio della Moda” che potranno verificarsi aggiustamenti nella catena globale del valore per via dei cosiddetti colli di bottiglia nella distribuzione, ma che si è ben lontani da una inversione di tendenza.

  

Terzulli, insomma, sfata un po’ il mito della deglobalizzazione che piace tanto a chi ha sempre guardato con occhio critico allo spostamento di intere fasi produttive nei paesi a basso costo di manodopera. “Qui bisogna intendersi su che cosa voglia dire essere un’azienda globale”, riflette l’economista. “Chi ha puntato, per esempio, sulla Cina o altre aree asiatiche solo per risparmiare sul costo del lavoro, starà certamente incontrando delle difficoltà perché ancora oggi intere città sono sottoposte a chiusura totale per il Covid; chi, invece, ha investito presidiando in modo strategico questi mercati, anche per la capacità che hanno di esprimere una domanda crescente, non pensa certo di ritirarsi a causa di rallentamenti tecnici che in futuro potranno essere superati”. Eppure, le criticità negli approvvigionamenti e nelle forniture conseguenti alla crisi pandemica hanno innescato un ampio dibattito sul reshoring, letteralmente “rientro a casa” della produzione, e sul nearshoring, “ritorno in un paese vicino", come strategie percorribili (anche) dalle imprese della moda. “In questo contesto”, osserva Terzulli, “la logistica assume una rilevanza strategica per i produttori, che devono tenere il passo con la crescente multicanalità delle vendite”.

   

Non è un caso che alcune regioni del centro-nord Italia, come Toscana, Piemonte e Veneto abbiano visto intensificarsi negli ultimi anni gli investimenti in poli per lo stoccaggio e la distribuzione di articoli che prima venivano gestiti oltre frontiera. Ma questo non vuol dire che il sistema moda stia passando da globale a regionale. Alcune recenti rilevazioni di Sace suggeriscono che “non si sta assistendo a una vera e propria rilocazione manifatturiera” ma che, anzi, le imprese maggiormente internazionalizzate sembrino aver reagito meglio alla pandemia. Da un sondaggio realizzato da Confindustria e RE4IT a fine 2021, emerge infatti come il 73,5 per cento delle imprese italiane di moda non abbia chiuso impianti nell’ultimo triennio e non intenda farlo nel corso del 2022, mentre solo il 2,8 per cento consideri di farlo quest’anno e il 3,5 per cento abbia trasferito la produzione principalmente in Italia. Sul fronte della fornitura, tre imprese su quattro non hanno ridotto il numero di fornitori esteri e non intendono farlo (solo il 7,5 per cento considera di farlo il prossimo anno); il 5,8 per cento, invece, li ha sostituiti con fornitori domestici.

 

“Questi dati", afferma il capo economista di Sace, “suggeriscono che a differenza di quanto successo con la crisi finanziaria del 2008, gli scambi internazionali sembrano aver mostrato una maggiore resilienza allo choc pandemico. Inoltre, ridisegnare il sistema di fornitura o produzione non è di facile attuazione nel breve periodo e porta con sé elevati costi, da un lato già sostenuti nella fase di internazionalizzazione e non più recuperabili, dall’altro nuovi esborsi da sostenere per rilocare la produzione; a questi si aggiungono la mancanza di capacità produttiva immediatamente disponibile, il maggior costo del lavoro, la limitata disponibilità di materie prime, nonché l’elevata frammentazione della filiera”.

    

Il sistema produttivo del fashion è diventato sempre più internazionale a partire dai primi anni Duemila, quando i colossi che controllano la filiera hanno sostituito la moltitudine di piccoli fornitori nei tradizionali impianti di taglio, fabbricazione e rifilatura, con un numero ridotto di fornitori strategici, gestendo la produzione in più fabbriche e sedi internazionali. Fenomeno accentuato dall’arrivo del fast fashion, caratterizzato da spedizioni rapide e scorte al dettaglio ridotte, che ha ridisegnato il settore privilegiando cicli di consegna più brevi, migliori competenze produttive e maggiore efficienza nella gestione della catena di approvvigionamento. “Questo è sicuramente il settore che ha maggiormente risentito della crisi pandemica”, prosegue l’esperto.

  

“L’idea che con un budget basso si potesse cambiare rapidamente guardaroba è stata profondamente messa in discussione dall’allungamento dei tempi per le consegne ma anche dal concetto di sostenibilità che si accompagna a una maggiore durata e qualità dei capi”. L’Italia si inserisce nella catena globale del fashion come terzo paese esportatore. Nel 2021 le vendite estere di tessile e abbigliamento sono state pari complessivamente a 54,8 miliardi, in netta ripresa rispetto al 2020, di cui 1,5 miliardi destinate a Russia e Ucraina. “Una percentuale tutto sommato contenuta, che fa sperare che l’impatto della guerra possa essere bene assorbito dal sistema”.

 

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