Una vetrina di Hermès ideata da Leïla Menchari. Il grande “pied ailé” di Mercurio, di Christian Renonciat, ha aperto la mostra dedicata al Grand Palais di Parigi alla Menchari, oggi novantenne

Mondi incantati in vetrina

Fabiana Giacomotti

Li creava per Hermès Leïla Menchari, celebrata con un libro e una mostra. Perché non tutto è e-commerce

Non tutto è e-commerce, non tutto vale la pena di acquistare con un clic o di osservare dietro lo schermo di un computer. C’è un mondo di bellezza che resiste ad Alibaba e a Jeff Bezos e che cerca ancora il battimani spontaneo, la gioia infantile dello sguardo e il gioco magico delle corrispondenze e dei ricordi dietro una vetrina. Memoria del rinoceronte in pelle di struzzo bianca e occhi d’agata Zouzou, ispirato ai disegni di Albrecht Dürer, che Salvador Dalí voleva comprare dopo averlo visto nelle famose sedici vetrine di Hermès di Faubourg Saint Honoré e che invece andò a finire nella collezione di un gioielliere ginevrino pazzo per i perissodattili, e che tornò a casa solo anni dopo, scovato da un antiquario di San Francisco. Immagini di brevi distese di sabbia rosa, costellata da un unico paio di occhiali da sole grandissimi e da una borsa meravigliosa. Mondi surreali in cui si cerca sempre l’ultimo dettaglio che forse è sfuggito, e che invece potrebbe essere essenziale, come nella scultura trompe l’oeil di Christian Renonciat che ha aperto la mostra dedicata al Grand Palais di Parigi a Leïla Menchari. Un grande “pied ailé” di Mercurio, cioè Ermes o appunto Hermès, che è un nome di famiglia, ma per milioni di persone un riferimento mitologico a prescindere dall’assonanza con il messaggero dell’Olimpo. Nel mondo ci sono milioni di donne che, pur sapendo smascherare una Birkin falsa osservandone semplicemente la tenuta al braccio di un’altra donna, non saprebbero vedervi alcuna correlazione con la mitologia greca, ignorandola serenamente come milioni di noi, dopotutto, ignorano il Mahabarata ma comprano ben volentieri madras indiani. Però, se tutte queste donne che posseggono o aspirano a una Birkin hanno imparato qualcosa della storia del Mediterraneo, delle sue infinite interrelazioni e del gioco, infantile e meraviglioso, di “ricreare la natura in ogni dettaglio, perché è importante trasmetterne anche la sensualità”, è anche grazie a questa grande dame tunisina che per cinquant’anni, i primi sotto la guida di Annie Beaumel e quindi, dal 1978 al 2013, da sola, ha saputo costruire mondi incantati nei pochi metri quadrati delle vetrine di Hermès, trasformando il disvelamento di ognuna di loro in una piccola cerimonia di apparato para-religioso davanti allo staff, ai fan e a centinaia di curiosi assiepati oltre i vetri.

 

C'è un mondo di bellezza che resiste ad Alibaba e a Jeff Bezos e che cerca ancora il battimani spontaneo e la gioia infantile dello sguardo

Il Natale mi porta sotto l’albero la biografia di Leïla Menchari pubblicata da Actes Sud e straordinariamente illustrata, oltre a una serie di osservazioni di sferzante noblesse intellettuale e puro disinteresse per le ragioni della politica di cui una andrebbe davvero girata a Matteo Salvini: “I confini sono solo cicatrici della storia”. Lei non se ne è dato alcuno. Figlia di un avvocato che aveva combattuto nella Prima guerra mondiale sotto le insegne della Francia e di una attivista per i diritti delle donne arabe, Habiba, pronipote dell’ultimo sultano di Touggourt, che negli anni Venti girava per Tunisi a capo scoperto e a rischio di essere lapidata (trovate ancora i suoi pamphlet sul web e nelle biblioteche specializzate sugli studi di genere), Leïla Menchari, pittrice e scenografa, ha attraversato molte tradizioni e infinite storie, oltre a quella del lusso e della moda accanto all’amico e conterraneo Azzedine Alaia, scomparso un paio di mesi fa. Nella sua convinzione che “la bellezza sia un’eredità, e vada ridistribuita” e nella sua lunghissima carriera, celebrata anche in un documentario curato da Jeanne Moreau, ha creato centotrentasei di quei mondi che sembrano usciti dalle poesie di Baudelaire, “la natura è un tempio” eccetera; decine di quei carré di twill di seta che hanno fatto la fortuna della maison più invidiata e inaccessibile del mondo (Bernard Arnault tentò di scalarla ancora una decina di anni fa: le famiglie Dumas-Hermès riuscirono a isolarlo fino alla sua definitiva uscita, all’inizio di quest’anno), oltre a una serie di modelli Kelly di puro lirismo creativo, in un’atmosfera calda e animata come quella di un suk, a prescindere dai prezzi degli oggetti esposti. L’inavvicinabilità a portata di mano e di cuore.

 

Per chi, come molti di noi, la professione di vetrinista rappresenta una delle vette dell’arte applicata e Leïla Menchari una delle sue maggiori interpreti mondiali insieme con David Hoey, leggendario creatore delle vetrine di Bergdorf Goodman, e Simon Doonan, autore della scenografie di Barneys e di un discreto numero di bestseller sul solito, demenziale mondo della moda che tutti disprezzano e chiunque vorrebbe frequentare, i piccoli universi che Hermès continua a creare senza badare a spese, ma affidandosi anzi di volta in volta ad artisti come Albert Fèraud, Sheila Hicks o, in tempi passati, a Lila de Nobili, che fu anche scenografa costumista della celeberrima “Traviata” di Visconti con Maria Callas, sono uno degli ultimi baluardi contro l’inarrestabile e oggettivamente comodissima ascesa degli acquisti online. “L’essere umano è fatto per relazionarsi: cambierà il modo di vendere, ma non il desiderio del contatto“, dice Francesca di Carrobio, amministratore delegato di Hermès Italie, facendosi portatrice del pensiero di madame Menchari, ora novantenne, e di tutta la famiglia Dumas Hermès che, nel suo pragmatismo protestante, anzi ugonotto, è riuscita a sviluppare un rapporto di scambio estetico del tutto particolare con questa donna islamica capace di portare Hermès all’Institut du monde arabe, correva l’anno 2003, per una mostra su Cartagine molto favorevole ad Amilcare. Eppure, non ci sono dubbi che il comparto della moda dei grandissimi numeri, quello che guarda a Hermès come al suo riferimento pur sapendo benissimo di non poterlo imitare né nei tempi lunghi di creazione e selezione di ogni oggetto, né nelle tecniche di comunicazione che, anche quando vengono sviluppate per il web, marcano una differenza culturale palpabile, stia andando in tutt’altra direzione. Solo Chanel e, in parte, lo stesso Hermès, sembrano sposare tecniche tradizionali di vendita, riservando al mondo online lo stretto indispensabile di attenzione e talvolta nemmeno quella.

 

"Trasformarsi di volta in volta in designer, pittore, compositore e regista per trasformare ogni vetrina in un piccolo, pur muto teatro"

Nel contempo, ve ne sarete accorti, tolte Gucci, Dolce & Gabbana e pochissime altre aziende della moda, le vetrine fisiche non sono più oggetto di grandi attenzioni né voci di spesa consistente, e neanche vogliamo ricordare i tempi di Paul Iribe o di Christian Bérard che fu maestro di Annie Baumel, basterebbero quelli molto più recenti di Felice Limosani per Luisaviaroma o di Sergio Colantuoni per La Rinascente. Le vetrine di La Perla, choc in via  Montenapoleone, qualche settimana fa mostravano una cascata di fiori di plastica, forse in attesa dei nuovi acquirenti cinesi di Fosun, chissà.

 

In parte, bisogna comprendere e molto compatire. Mentre noi consumatori ci dirigiamo sempre più spediti verso gli schermi dei nostri pc per fare acquisti, la vetrina va trasformandosi nell’ultimo lusso per una lunghissima schiera di bouticcari disperati, stretti fra la necessità di entrare a far parte almeno di una piattaforma online comunitaria come Farfetch e una realtà fatta di vendite sottobanco per milioni di euro a colleghi cinesi o coreani, il cosiddetto “mercato parallelo” sul quale le grandi griffe hanno ripreso a chiudere gli occhi, non potendo reggere il peso di troppi negozi monomarca pur essendo costrette a far crescere i fatturati. Per tutti i giorni antecedenti al Natale, l’articolo più letto e cliccato dai cosiddetti fashion professional è stato, non a caso, una visione apocalittica del futuro del commercio, della moda ma non solo, firmato per “Business of Fashion” da Doug Stephens, “il profeta del retail” secondo un’autodefinizione che probabilmente, a forza di essere ripetuta, si è trasformata in realtà. Secondo l’Isaia dello scontrino, i negozi come li conosciamo e ancora un po’ li frequentiamo oggi, per sopravvivere dovranno trasformarsi in mezzi di pura comunicazione, lasciando ogni pratica commerciale, e perfino la prova, in carico agli stessi prodotti. Pensate a un paio di sneakers che vi segnalano quando sono consumate e quale nuovo modello dovreste ordinare e avrete la misura di quello che, secondo Stephens, sta per succedere e che in parte succede già, con i cellulari, per esempio. Se stiamo ancora aspettando di vedere il contenitore del detersivo che emette automaticamente l’ordine di refill online mentre noi proviamo quella fantastica camicetta online grazie a speciali sensori, come preconizza il profeta canadese, del cambiamento in atto nelle boutique ci siamo accorti un po’ tutti. A forza di frequentare i megastore del centro e anche dei quartieri radical chic per farvi l’aperitivo, assistere alla presentazione di libri o di nuovi profumi senza comprarvi nemmeno un fazzoletto ma trascorrendovi intere serate, ci era infatti venuto da tempo il dubbio che stessero trasformandosi in qualcosa di diverso dalle botteghe oscure di cui scriveva Emile Zola e perfino dai serial molto pop di Canale 5. Ne avevamo anche scritto sul Foglio più volte e pur senza essere sedicenti profeti di alcunché ma semplici osservatori di tutto. L’analisi di Stephens va però ben oltre, perché aggiunge alle sensazioni, cioè all’empirismo, la forza sempre piuttosto persuasiva dei dati: nell’anno che sta per finire, negli Stati Uniti avranno chiuso 8.642 negozi, mentre l’e-commerce rappresenterà il 25 per cento delle vendite entro i prossimi sei anni. In Gran Bretagna, la percentuale nello stesso periodo dovrebbe toccare il 30 per cento. Perfino l’Italia, dove secondo Netcomm a fine novembre non le vendite di beni online non superava il 5,7 per cento del totale, dovrebbe crescere a due cifre nei prossimi semestri.

 

Il rinoceronte in pelle di struzzo bianca e occhi d'agata Zouzou, ispirato ai disegni di Albrecht Dürer, che Salvador Dalí voleva comprare

Se questo progressivo spostamento dell’asse economico, semantico e iconico del commercio  verso il negozio virtuale porterà a una trasformazione definitiva del negozio fisico in showroom permanente, lo vedremo presto, e in parte l’abbiamo intuito, e potrebbe non rivelarsi un male, se non per le migliaia di addetti alle vendite che, come ipotizza Stephens, “faranno la fine dei fabbri ferrai” dopo l’avvento dell’auto. Vanno, insomma, preparandosi tempi duri, come in parte abbiamo già visto nelle scorse settimane nello scontro fra Amazon e i sindacati italiani e tedeschi. Le vetrine, e le grandi scenografie immaginifiche, da fotografare, cliccare, ricordare e, se possibile, vivere, dovrebbero però, dopo questo primo momento di sconcerto, rappresentare una leva di marketing rilevante e uno sbocco professionale interessante.

 

“Le vetrine sono storytelling, un modo di raccontare una storia”, sostiene Leïla Menchari. Che per “trasformare ogni vetrina in un piccolo teatro, pur muto e statico” , ritiene necessario “trasformarsi di volta in volta in designer, pittore, compositore e regista”. Lo fece per la prima volta nel 1961, quando andò a proporsi a Hermès con un album di disegni sotto il braccio, e madame Baumel, che doveva affiancare il lancio del profumo Calèche, le disse di disegnarle “un calesse straordinario”. Da allora “lo straordinario è il mio elemento”. Per chi può permetterselo, senza alcun dubbio. Anche in questo, pur possibile, interesse strategico per lo storytelling vetrinistico, la ripetizione e la reiterazione sembrano invece la realtà per moltissime aziende della moda e anche del lusso. Se Leïla Menchari ricorda la “grande lezione di rigore e maniacalità per il dettaglio appresa da Luchino Visconti”, la realtà di oggi parla invece di modelli espositivi eternamente ripetuti, trasmessi da un capo all’altro del pianeta da uffici marketing e commerciali interessati a uniformare processi e a gestire reazioni sempre uguali presso un pubblico dato per uniforme. Il format non è un concetto puramente televisivo: Zara, H&M, ma anche Benetton o Prada hanno standard di allestimento molto o relativamente univoci. D’altronde l’unicità, che impone riflessione, cultura, curiosità, tempo da perdere, viene percepita non di rado come minacciosa dagli stessi clienti. La meraviglia crea entusiasmo, ma anche inquietudine. Per i pochissimi che trovano insopportabile vedere le stesse vetrine, gli stessi negozi e le stesse insegne da Los Angeles a Zurigo e Taiwan, ve ne sono infiniti altri che soffrono la mancata rassicurazione della sirena Starbucks sull’Himalaya e che ripetono lo stesso shopping a Mosca come a Mexico City, entrando negli stessi negozi e confrontando gli stessi capi. Gente per la quale la cosiddetta “esperienza d’acquisto” deve ripetersi identica come in un film fantastico. Un sogno, o un incubo, a seconda delle prospettive.

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