Il water di Pol Pot

Massimo Morello

L’ultimo santuario dei khmer rossi di Pol Pot è la scena di un documentario sulla missione di protezione ambientale di opera di un monaco buddista. Il film dimostra come si possa modificare il corso della storia in luoghi che sembravano maledetti. E induce a riflettere sul nostro modo di  osservarli.

«Questa è la tomba di mister Pol Pot» dice il sergente che comanda l’avamposto cambogiano alla frontiera con la Thailandia, sulle pendici delle montagne di Chuor Phnum. Quello che era l’ultimo rifugio dei khmer rossi è chiuso a nord da una barriera di foresta, a sud da una parete verticale che controlla la pianura sottostante e il remoto villaggio di Anlong Veng. La tomba è un tumulo di terra coperto da un pezzo di lamiera ondulata. E’ segnata da un cartello dell’Office of Tourism della Quon Province: “Questo posto è d’interesse storico”.  In realtà là sotto è sparsa solo un po’ di cenere di Pol Pot. «E’ stato cremato su una pira di spazzatura e di copertoni d’auto. Cremato dalla gente del generale Ta Mok che non lo amava e disse “crematelo come i cani”» spiega il sergente con l’aria di chi si sente già una guida turistica. Quindi ci fa cenno di seguirlo per un sentiero di sterpaglie sino a una radura dove sono sparse scatole di medicine, lattine arrugginite di birra e un immacolato water di porcellana. «La casa di Pol Pot era qui. E’ scomparsa perché era di legno di buona qualità» dice, indicando il water come fosse una reliquia.

Iniziava così una storia scritta nel 2003. Il regime dei Khmer Rossi cadde nell’agosto del 1979 in seguito all’invasione-liberazione vietnamita, ma la guerra civile continuò sino al 1998, concentrandosi nei ”santuari” khmer nel nord del paese come la regione di Anlong Veng, che divenne il feudo di Ta Mok (nonno Nok), l’ultimo leader dei khmer rossi noto anche come “Il macellaio”. Pol Pot morì il 15 aprile del 1998 ad Anlong Veng. Ta Mok il 21 luglio 2006, dopo aver trascorso i suoi ultimi anni tra il carcere e l’ospedale.
 
A volte, molto spesso, mi stupisco di quanto la Storia possa apparire tanto vicina e tanto lontana al tempo stesso. Probabilmente perché la osservo da una posizione, il Sud-est asiatico, in cui passato  e futuro prossimi molto spesso si confondono. Anlong Veng è solo uno degli infiniti portali di queste connessioni. In quella regione, tra le foreste delle Dangrek Mountains, è ambientata una trama che contraddice tutti gli orrori di cui è stata teatro – fu il terreno di scontro tra i Khmer Rossi e le forse del nuovo governo cambogiano - e gli stereotipi da “Cuore di Tenebra” che ha alimentato.
Quella trama, che racconta una storia vera, è divenuta il soggetto di un documentario intitolato Jungle Guard.

Racconta di una comunità di monaci buddhisti che si sono assunti il compito di proteggere quell’ecosistema, ormai noto come Monk Commune Forest. Il Venerabile Bun Saluth, protagonista del film, ha fondato la comunità in collaborazione con un ex miliziano khmer rosso divenuto suo amico nella condivisione di un sogno: quello di proteggere la foresta, i suoi animali, le due diversità naturali. Lo ha fatto trasferendosi fisicamente nella foresta con i suoi confratelli, resistendo sia alle minacce di coloro che vogliono sfruttarne le risorse in maniera selvaggia, sia alla tentazione di opporsi ad essi con la violenza.

 
 
Diretto da  Makara Ouch, regista che ha già realizzato una serie di documentari destinati alle scuole superiori cambogiane, il film è stato prodotto dalla Sleuk Rith Motion Picture, una società collegata al Documentation Center of Cambodia (DC-Cam), Ong che studia il regime dei khmer rossi sia per denunciarne i crimini sia per educare la popolazione cambogiana (e non solo) allo scopo di evitarne il ripetersi. In questa prospettiva il vuole presentare un modello di leadership sia per i monaci sia per i civili in una società come quella cambogiana che sta ancora cercando i suoi modelli di sviluppo. Nel caso di Anlong Veng la protezione ambientale diviene anche un’alternativa al cosiddetto dark tourism, il turismo dell’orrore, che aveva identificato in questo luogo una delle sue destinazioni di punta.
 
Era quello che sognava la mia guida di quindici anni fa… 
Lay sogna di fare la guida turistica proprio nella zona di Anlong Veng e questo giustifica sia le sue surreali rassicurazioni, sia certe idee quantomeno bizzarre. «In fondo Pol Pot ha fatto del bene» dice a un certo punto. 
«Ma se mi hai raccontato che i Khmer Rossi hanno spezzato le gambe a tuo fratello».
«E’ vero. Ma se i Khmer Rossi non fossero stati qui, tutta la nostra terra sarebbe stata presa dai thailandesi».
«Ma ti sembra giusto che Anlong Veng diventi un’attrazione per i turisti? Non ti sembra di speculare su tanti morti?» lo provoco. Personalmente non è che la cosa mi scandalizzi.  
«I Khmer Rouge fanno parte della nostra storia» risponde filosoficamente.