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La Ricaduta di Costantinopoli

Massimo Morello

La riconversione di Santa Sofia in moschea è la dimostrazione che il regime turco vuole affermare un’egemonia culturale islamica rispetto ai valori diffusi in Europa. Proprio quando l’Occidente mette in discussione i propri

“Non ho mai partecipato alla vita politica, l’ultimo fatto che a dire il vero mi preoccupa e che mi riguarda e interessa in modo pieno e sincero è la caduta di Costantinopoli per mano degli infedeli il 29 maggio 1453”. Così scriveva Alvaro Mutis, lo scrittore colombiano che ha ridato valore letterario al romanzo d’avventura, in una sua nota biografica.

 
Quante volte ho citato quella frase, ne ho fatte mie tante altre, ho ricercato o ricreato le scene delle sue avventure, ho cercato di interpretare i suoi avventurieri. Mutis è uno di quei personaggi la cui storia e le cui storie si sono intrecciate alla mia vita in modo casuale, inconsapevole, voluto o provocato. Probabilmente perché condivido con lui l’amore per il mare, l’avventura, le vecchie carrette, i bar e le donne dei porti, il fascino degli esotismi che ancora siamo riusciti a vivere, che fosse in Amazzonia o sul Mekong.

 
Quella prima frase, d’ironica, storica e iconica scorrettezza politica m’è tornata in mente in una delle ambientazioni di Mutis: “Di fronte all'oscillare delle onde, al porto di Marsiglia, il vibrare d'ali per l'emozione di una nuova avventura”. Proprio sul porto di Marsiglia, nelle gallerie del Mucem, il museo dedicato alle culture del Mediterraneo, è allestita l’esposizione permanente Connectivités. Rappresenta la storia delle grandi città portuali del Mediterraneo tra il XVI e il XVII secolo. L’avevo già visitata. Tornandoci ho trovato nuovi spunti di riflessione “indiretti”, generati, inconsciamente ma non troppo, dai movimenti della neo-rivoluzione culturale innescata dalla protesta Black Lives Matter. Una rivoluzione che ha portato a manifestazioni di iconoclastia, fisica e culturale, in molti casi paragonabili a quelle della Rivoluzione Culturale lanciata da Mao Zedong, dei gruppi di fondamentalisti islamici. In qualche caso addirittura dei khmer rossi.

  
Seguendo il percorso di Connectivités, l’ironico sconvolgimento di Mutis per la caduta di Costantinopoli m’è venuto in mente osservando il ritratto del suo conquistatore Maometto II.

   

Quindi quelli dei suoi successori che estesero l’Impero ottomano sino al cuore dell’Europa. E poi le carte, i reperti, i documenti che testimoniavano un mondo diviso tra grandi imperi e unito dalla globalizzazione dei traffici, compresa la pirateria e la tratta degli schiavi, praticate da europei e ottomani senza alcuna distinzione.

  

 
Le distinzioni ci sono oggi, ho pensato: il giudizio morale a posteriori sembra essere una prerogativa solo occidentale. Il che, in un certo senso, ed è paradossale, potrebbe testimoniare una nostra “evoluzione” etica, una forma di superiorità morale nell’ammissione della colpa e nella cristiana ricerca di un'espiazione.

  
Il fenomeno, però, induce a un’altra riflessione: sulla storia. Anche in questo caso è Connectivités a darne lo spunto. Nella mostra del Mucem, infatti, non potevano mancare le analisi di Fernand Braudel, che del Mediterraneo ha realizzato un grandioso affresco storico. Anche in questo caso, valgono le sue distinzioni tra tempo geografico, tempo sociale e tempo individuale. “Il tempo storico cammina a velocità differenti…La vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno, altre di secolo in secolo” Con una metafora famosa, Braudel paragona questi tempi a quelli del mare: c’è il tempo delle profondità abissali (quello geografico), quello delle grandi correnti sottomarine (sociale) e quello delle increspature superficiali, l’individuale.

  
In questa prospettiva, è difficile interpretare in modo corretto gli eventi contemporanei (come possono essere le fluttuazioni etiche, culturali e politiche che sembrano susseguirsi quasi come mode, tanto che spesso sono create, interpretate, analizzate e "influenzate" da protagonisti di moda e alla moda più che da storici). Secondo Braudel, invece, “Quando vogliamo spiegare una cosa, dobbiamo diffidare ad ogni istante dell’eccessiva semplicità delle nostre suddivisioni. Non dimentichiamo che la vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze”.

  
Insomma, è un po’ quel che diceva Mutis dall’alto della sua ironia. Preso da tutte queste considerazioni anch’io pensavo di potermi astrarre un po’, elitaristicamente allontanarmi da un trascorrere di eventi che non comprendo e mi irritano, rifugiandomi negli abissi della Storia o seguendo, nuotando, le grandi correnti della rada di Marsiglia.

   
Ero quasi in pace con me e con la Storia, dunque. Poi, tornato a casa, ho aperto la posta e ho visto la segnalazione di un articolo sul Foglio a firma di Giulio Meotti, che analizzava la ri-conversione di Santa Sofia in moschea. L’articolo è bello, lo condivido. Ma mi ha rovinato la serata, mi ha fatto ripiombare nell’ansia: tempo geografico e individuale hanno fatto cortocircuito.

  

  
A questo punto, come per Mutis la caduta di Costantinopoli segnava l’inizio delle sue preoccupazioni, per me la sua ricaduta avvicina terribilmente al centro del mio mondo ciò che normalmente osservo in Asia: la marginalizzazione dell’Occidente, la sua apostasia culturale. Quasi la ricerca di una redenzione da peccati che sembrano annidati nell’inconscio collettivo occidentale.   
Come per il Gabbiere, protagonista di tante storie di Mutis, si annida “la paura delle proprie miserie più segrete, il terrore di un grande vuoto in agguato dietro i suoi anni pieni di storie e paesaggi”.