Una delle immagini più significative delle manifestazioni di Bangkok. Il gesto simbolo di rivolta nel film "Hunger Games" è stato adottato dai giovani thai.

Totem e Tabù

Massimo Morello

In Thailandia si sta mettendo in discussione ciò che rappresentava un tabù, qualcosa che non poteva essere minimamente criticato e un totem, al tempo stesso, l’incarnazione, la rappresentazione di ciò che è sacro. La “contestazione” giovanile in atto, più che un fenomeno politico, è profondamente culturale. 

“Corri compagno, il vecchio mondo ti sta dietro”. 
“Diamo l’assalto al cielo”. 
“Potere all’immaginazione”.
“Né dio, né re, solo umano”.
I primi tre slogan fanno ormai parte della semantica del linguaggio della contestazione sessantottesca. Sono simboli di un movimento che ha avuto conseguenze culturali e politiche e che, nel bene e nel male, ha modificato il modo di pensare, lo stile di vita occidentale.
L’ultimo slogan, che potrebbe benissimo essere assimilato ai precedenti, è invece stato gridato e scritto nelle piazze di Bangkok che in questi giorni sono state il palcoscenico delle manifestazioni di decine di migliaia di studenti. Questo ha un significato in cui bene o male potrebbero esprimere conseguenze ben più profondo.
Per una interessante coincidenza storico-culturale tali assonanze di significato nelle loro possibili e diverse conseguenze possono essere espresse nel secondo slogan. Per i giovani del Sessantotto il “cielo” era un luogo metafisico in cui confluivano i concetti di religione e potere ma al tempo stesso un punto finale, un’ideale assoluto da raggiungere. Per i giovani thai, se mai osassero riprenderlo, quello slogan non avrebbe solo quei valori filosofici. Perché in Thailandia con “cielo”, o “paradiso” si indicano i luoghi fisici in cui si concentra e il potere supremo, la residenza reale.
Quello che sta accadendo in Thailandia in ogni caso è proprio questo: un assalto al cielo, sia pure in forma del tutto astratta, simbolica. E’ accaduto il 3 agosto quando l’avvocato e attivista per i diritti umani Anon Nampa, per la prima volta dopo oltre un decennio, durante una manifestazione di protesta, ha dichiarato la necessità della riforma della monarchia. Ed è accaduto in forma spettacolare, scenografica, la sera del 10 agosto, nel campus della Thammasat University di Bangkok, quando la ventunenne Panusava Sithijirawattanakul è salita sul palco in vestito rosso e ha letto un manifesto di dieci punti molti dei quali richiedevano una forte limitazione dei poteri reali, dalla rinuncia al controllo del patrimonio della corona sino alla non interferenza nella politica nazionale.


Per molti osservatori, la contestazione, come a Hong Kong, è un movimento politico che si batte per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. L’opposizione a un sistema di dittatura prima e democrazia limitata poi, instaurato da Prayut Chan-ocha, ex capo di stato maggiore, autore del golpe del 2014 e artefice della nuova costituzione che de facto assicura al suo partito la maggioranza in parlamento. Un sistema che avrebbe dimostrato la sua resilienza con lo scioglimento del Future Forward, il partito d’opposizione fondato dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit (a sua volta bandito dalla vita politica) che aveva ottenuto un eccezionale risultato alle elezioni del 2019 grazie al supporto di giovani, studenti, intellettuali, borghesia emergente. Thanathorn, del resto, ha dichiarato il suo sostegno al movimento studentesco e, per quanto neghi ogni supporto finanziario o coinvolgimento attivo, diversi segnali indicano che il Future Forward stia cercando un organismo in cui reincarnarsi.
La crisi latente sin dalla fine del 2019 ha trovato nuovo terreno di coltura nella pandemia da Coronavirus. In Thailandia l’emergenza sanitaria è stata gestita in modo esemplare: il 25 agosto i dati ufficiali dichiarano 3403 contagi, 108 ospedalizzati e 58 morti complessivi, situazione pressoché stabile da quasi tre mesi. Ma la crisi è stata anche una perfetta scusa per il governo per dichiarare una sorta di legge marziale (rinnovata per la quinta volta il 19 agosto) che ben poco ha a che vedere con l'emergenza che in Italia qualcuno ha considerato un attentato alla democrazia. Il Covid 19, inoltre, rischia di trasformare in una vera e propria catastrofe la già latente crisi economica: nel secondo quadrimestre l’economia thai ha subito una riduzione del 12.2%.
Tutti questi elementi sembrano comporre uno scenario politico “normale”, pur in una prospettiva che tiene poco conto dei “valori universali” e nella eccezionalità di una crisi pandemica, con fattori e forze in conflitto tra loro, di volta in volta in cerca di alleanze, soluzioni, scontri a diversa intensità. Rientrerebbe in questa logica anche quello che appare come un dissidio tra le stesse forze della destra: da un lato Prayut, che sembrerebbe voler proseguire in una road map verso una normalizzazione di stampo asiatico, sul modello cinese o singaporeano, dall’altro il suo successore quale capo di stato maggiore, il generale Apirat Kongsompong, un ultraconservatore che forse vorrebbe risolvere il problema con una repressione come quella del 1976, quando furono massacrati un centinaio di studenti della stessa Thammasat University.
Erano altri tempi e lo scenario geopolitico era totalmente diverso: la Thailandia era una delle pedine centrali nel domino del Sud-est Asiatico giocato non tra oriente e occidente bensì tra i contendenti della guerra fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica, che si manifestava ovunque nel mondo in vari conflitti a “bassa intensità” e che aveva determinato anche fenomeni di contestazione spesso sfociati nella lotta armata.
Oggi come allora, la situazione in Thailandia la situazione è resa “unica” dalla presenza di un “cigno nero”, non imprevisto ma imprevedibile: la monarchia. Con una profonda differenza: il re di allora, Bhumibol Adulyadej, era considerato un elemento di stabilizzazione, forte del consenso e addirittura della venerazione del suo popolo. Anzi, fu proprio nella “gestione” delle crisi degli anni Settanta, quando forse riuscì ad evitare che la Thailandia subisse lo stesso destino degli altri paesi dell’area, e poi con i suoi frequentissimi spostamenti nel paese per promuovere progetti quali la riconversione delle colture da oppio, che Rama IX riuscì ad apparire come un Dhammaraja, il re che governa in nome di dell’ordine cosmico celeste.
Rama X, invece, sembra volersi presentare (o volersi credere) quale Devaraja, ossia il dio-re, colui cui tutto è concesso. «Guardando in televisione la sua incoronazione vedevo le immagini delle sculture dei templi khmer» dice vittorio Roveda che di quei templi è stato uno dei maggiori studiosi. «È tangibile il contrasto con l’impressione che dava re Bhumibol, colui che per la maggior parte dei thai è una sorta di spirito benevolente».
Il nuovo re, quindi, è stato uno dei detonatori, se non il principale, delle manifestazioni studentesche. Vajiralongkorn, oltre a dar adito a molti pettegolezzi sulla sua vita privata in patria e all’estero (risiede per la maggior parte del tempo in Germania) ha manifestato una forte tendenza ad accentrare il potere nelle sue mani, sia dichiarando proprietà personale il patrimonio della corona (era gestito da un fondo a beneficio del popolo thai), sia affidando alla fedelissima guardia reale (vero e proprio corpo di pretoriani) il controllo della capitale. Tutto ciò ha suscitato diverse critiche anche tra gli stessi ultraconservatori che vedono messa in crisi l’immagine del monarca quale incarnazione delle virtù buddiste. Ma tra i giovani Rama X è divenuto la rappresentazione plastica, un’icona (in senso letterale) del principio gerarchico. Un principio che costituisce l’impalcatura della società thai, definito nel rapporto pii-nong, anziano-giovane. Meglio ancora: maggiore-minore. Una gerarchia molto complessa che tocca ogni aspetto della vita: il sesso, la famiglia, l’età, il lavoro, la condizione sociale ed economica, l’educazione e che è la base di una delle società a maggior tasso di diseguaglianza del mondo, dove l’1% della popolazione controlla oltre il 50% del capitale nazionale.
La rivolta giovanile, tuttavia, è soprattutto contro l’origine culturale del fenomeno più che le sue conseguenze economiche. Tanto che solo da pochissimo tempo i vecchi oppositori, le cosiddette “camicie rosse”, rappresentanti delle classi più povere stiano pensando di unirsi alle proteste (unione che potrebbe rivelarsi fatale, in tutti i sensi).
Paradossalmente, almeno per ora, questa stessa interpretazione “culturale” potrebbe essere all’origine della “clemenza” dimostrata nei confronti dei leader del movimento. Tutti loro, compreso il rapper Dechatorn Bamroongmuang (già noto per il Rap for Democracy), sono stati arrestati e rilasciati ormai diverse volte ma non sono stati accusati del reato ben più grave di lesa maestà, bensì di sedizione e di violazione delle norme di prevenzione del coronavirus.

Una clemenza che è apparsa incomprensibile, tanto più che è stata ispirata dallo stesso re.
La spiegazione potrebbe essere di natura psicopolitica. Secondo il generale Apirat, infatti, i contestatori sono individui “malati”, soffrono di una malattia chiamata “chang chart”, odio verso la madrepatria, una sindrome molto più grave dello stesso Covid. «Il Coronavirus può essere curato, ma il chang chart è incurabile» ha dichiarato lo stesso Apirat, aprendo scenari inquietanti su quelle che potrebbero essere le conseguenze nel controllo di manifestazioni che non verrebbero catalogate come politiche bensì patologiche.
Per evitare il diffondersi della malattia il governo sta adottando un severo controllo sui social, soggetti a una censura tra le più rigorose al mondo, tanto che il governo ha imposto a Facebook il blocco di accesso in Thailandia a un gruppo che discuteva sulla riforma della monarchia. Infine, poiché prevenire è meglio che curare, è stata studiata una campagna di educazione civica rivolta ai giovanissimi.

E’ un codice di condotta nei confronti dei “pooyai”, gli adulti, gli insegnanti, le persone verso cui devono manifestare rispetto, obbedienza, mantenendo sempre un atteggiamento composto.