La trama perfetta

Massimo Morello

Le operazioni di salvataggio dei ragazzi intrappolati nella grotta di Tham Luang, prima che questa vicenda scompaia dalle cronache globali, offrono uno spunto per riflettere sulla condizione umana

La storia dei ragazzi thailandesi intrappolati in una grotta nell’estremo nord del paese, tra montagne coperte dalla giungla e popolate da spiriti è una trama perfetta. 

 
E’ un horror, una tragedia, una storia d’azione, un thriller, un’avventura, una favola commovente che sembra avviata a un lieto fine, una testimonianza di solidarietà umana. E’ tutto questo e tutto il contrario.

 
I ragazzi nella grotta di Tham Luang sono quasi divenuti comparse in una scena interpretata da maghi, monaci, soldati delle forze speciali, mercanti, politici, commentatori, reporter, subacquei superspecializzati, espatriati in cerca di una briciola di gloria e contadini che vogliono guadagnare meriti per il proprio karma. Eroi e uomini con tutte le loro debolezze.

  
Una delle trame più affascinanti è quella descritta da Edoardo Siani, giovane antropologo dell’Università di Kyoto che da anni studia i rapporti tra mondo magico e politico in Thailandia (è lui stesso un “indovino”). Ma anche la sua storia (pubblicata in italiano da Terresottovento), per quanto profonda, è turbata da una visione culturale che cerca di spiegare il mito in termini sociologici, politici. Peccato veniale, rispetto alle manipolazioni compiute su questa storia.

 
Per alcuni, ad esempio, nelle operazioni di soccorso si sta manifestando un nazionalismo esasperato: il governo militare vorrebbe dimostrare tutta la sua efficienza  limitando o sottacendo l’apporto dei “farang”, gli stranieri. Analisi che sembra risentire un po’ troppo del complottismo imperante e tener poco conto dell’orgoglio thai, già dimostrato durante lo tsunami del 2004, quando il paese volle e riuscì a dimostrare di poter fare da sé.  In alcuni casi, poi, il focus si centra su fenomeni marginali. Come un video della BBC in gran parte dedicato alle donne musulmane che preparano cibo halal, puro, per i soccorritori di fede islamica.  

 
Alla fine, il vero eroe, nel senso più complesso del termine, di questa trama perfetta è Ekaphol Chantawong, l’allenatore che ha condotto i ragazzi dentro la grotta. La responsabilità di ciò che è accaduto è sua, della sua imprudenza, della sua superficialità, della scarsa attenzione alle regole. Ma è lui che sta consapevolmente scontando questo peccato. Non solo perché sarà l’ultimo a uscire, o perché ha pensato al suicidio come estremo gesto di compensazione per il suo errore, ma perché incarna le contraddizioni thailandesi, destinate ad acutizzarsi nel nuovo millennio.

 
Nella società, thai, infatti, vige un fortissimo principio gerarchico, in cui il minore (che sia un figlio, un allievo, un suddito, un dipendente) deve rispetto e obbedienza al maggiore. Ma dove quest’ultimo assume su se stesso un equivalente carico di responsabilità. Ecco la tragedia del giovane Ekaphol, 25 anni: aver infranto questo tacito patto. E’ un principio che affonda le sue radici nel buddhismo e nelle ancestrali religioni asiatiche, secondo cui il successo, la ricchezza, l’autorità sono il segno di meriti acquisiti nelle vite precedenti. Ma è anche un principio che si perpetua in un indefinito ciclo di esistenze: i meriti devono essere alimentati in modo proporzionale a quanto già ottenuto.

 
Un sistema tanto rigoroso che induce facilmente all’errore, al peccato proprio perché la punizione resta indeterminata e si può rimediare in una vita successiva. Questo, a sua volta, spiega un cardine della cultura thai, il concetto del “mai pen rai”, espressione che si può tradurre con “non importa”, “non prendertela”, “godi l’attimo”. Concetto che può essere declinato in molti modi: come una filosofia di vita edonistica, allegra, in cui tutto è “sanuk”, divertimento, o “sabai”, benessere, dove anche la disavventura è vissuta col sorriso (lo stesso ineffabile sorriso dei ragazzi nella grotta) e che spesso conduce a conseguenze disastrose: una tragicommedia. Ma che può anche trasformarsi, con altrettanta rapidità, diventando una rappresentazione dell’impermanenza buddhista, la consapevolezza della transitorietà dei fenomeni, del fluire delle cose.

  
Ekaphol sembra incarnare tutti questi concetti, con tutte le loro implicazioni, nel bene e nel male. Per questo, almeno da parte dei thai, nei suoi confronti si è manifestata un’assenza di giudizio che invece appare in molti commenti occidentali.

 
Come s’è visto vale per tutta questa vicenda. In un modo o nell’altro tutti noi siamo dentro a una grotta: quella dei nostri pregiudizi, convinzioni, desideri.

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