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Santi ma impuri. Quella di Dürrenmatt è una commedia dell'ingenuità infranta
Derubricato dalla critica a testo minore, “Greco cerca greca” è un romanzo utile a quei lettori sempre più stanchi del regime di correttezza politica che domina il nostro orizzonte culturale. Ma niente rivoluzioni, solo un esempio di adattamento al caos.
Tommaso da Kempis fu teologo e mistico tra i più influenti del cristianesimo d’Occidente: innovatore come pochi altri, è il più accreditato tra gli ipotizzabili autori dell’Imitatio Christi, autentico long seller nella letteratura devota. Nonostante gli innegabili meriti, però, del pio canonico non fu mai riconosciuta la santità. Una possibile spiegazione per tale rigidezza nei confronti di una figura tutt’oggi venerata in tutto il mondo cristiano concerne l’atroce morte che lo colse nel luglio 1471. Secondo quanto si tramanda, quando in pieno Seicento il corpo fu riesumato per dare avvio alla causa di santità, si sarebbero trovati dei graffi sulla parte interna del coperchio della bara e schegge di legno sotto le unghie del cadavere. Lo sconvolgente sospetto fu allora che Tommaso, sepolto vivo, di contro a quanto avrebbe fatto un vero santo, avesse tentato di rimandare l’incalzante ingresso nel regno dei cieli. Insomma, monaco zelante e virtuoso, ma non quanto basta per essere inclusi al di là di ogni ragionevole dubbio nella schiera dei beati.
La scoperta di impurità che lordano, benché di poco, figure avvolte nell’aura della beatitudine è al centro di “Greco cerca greca” (Adelphi 2024), romanzo dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, originariamente pubblicato nel 1955 e ora riproposto in una nuova traduzione italiana a opera di Margherita Belardetti. Pur trattandosi di commedia in prosa, le circostanze in cui il romanzo trovò la sua stesura erano drammatiche. La grave malattia della moglie costringeva Dürrenmatt a notevoli esborsi, che insistevano su una situazione finanziaria già complicata. Per questa ragione, alcuni critici hanno derubricato “Greco cerca greca” a testo minore – giudizio che, nell’umile avviso di chi scrive, è tutto da rivedere. Non tanto o non solo perché il libro, in fondo, contiene tutti gli stilemi e i motivi tipici dell’autore, ma soprattutto perché, al giorno d’oggi, un libro del genere è proprio quel che serve, specie per i lettori più stanchi del regime di correttezza politica che domina il nostro orizzonte culturale.
Arnolph Archilochos è un pio sottocontabile di origine greca – origine assai risalente nel tempo, a dire il vero, a quando cioè il suo avo migrante mise piede in Francia per servire Carlo il Temerario, coevo di Tommaso da Kempis. Tutt’altro che nobile nell’estetica e nelle maniere, Archilochos è nobile però nella sua infantile visione della vita, incardinata su princìpi di indubbia solidità morale, che egli mette in pratica nel quotidiano: non beve alcol, non fuma, si astiene sia dalla carne che dalle carni, non aspira alla ricchezza, il suo limitato amor di sé gli consente di vivere senza lamentarsi della fetida stamberga che gli fa da casa, mentre investe parte cospicua del suo esiguo stipendio per sovvenzionare quel gruppo di balordi scrocconi che è la famiglia di suo fratello Bibi.
Di stanza a Ginevra, l’unico angolo di ristoro per Archilochos è una specie di ritrovo per ciclisti, gestito da Georgette e Auguste Bieler, dove mangia a pensione completa, versando un compenso fisso pattuito al primo giorno in cui si presentò ai proprietari. Nelle sue abituali conversazioni con Madame Bieler, Archilochos non fa mistero della sua visione morale dell’esistenza, tutta incentrata sulle virtù esemplari di alcuni esponenti chiave del paese. Il suo è un rudimentale ma solido “sistema etico del mondo”, che include figure diverse come il presidente della Repubblica, il vescovo della confessione di maggioranza, l’industriale Petit-Paysan, suo datore di lavoro, e pochi altri.
Archilochos è un personaggio che sin dalle prime pagine comanda al lettore un senso di partecipe condiscendenza: nell’ottusa ingenuità di un’intelligenza puerile, comunque tutto sembra funzionare. D’altro canto, è un’ingenuità stimabile: raramente qualcuno arriva a una sistematizzazione della propria concezione etica, meticolosa al punto tale da richiedere la corretta e sempre aggiornata catalogazione dei suoi modelli di virtù – attività cui il Nostro bada con perizia quando, in dialogo con Madame Bieler e altri personaggi, ne passa in rassegna le qualità morali in chiave comparativa.
Più raro ancora, però, è che una tale catalogazione, quando esiste, non colga in nulla le reali fattezze delle personalità che annovera: il ritratto aureo che di queste Archilochos s’è fatto è destinato a disfarsi in una sorta di viaggio iniziatico di segno inverso. Se, per come comunemente inteso, il viaggio iniziatico è un percorso di transizione da un certo stato di conoscenza e spiritualità a uno più elevato, Archilochos si troverà a dover via via rimuovere la patina di fiduciosa innocenza con cui aveva ingrassato l’immagine del suo mondo per approdare a uno stato di conoscenza e spiritualità forse inferiore, ma assai più realistico.
L’innesco di tanto faticoso percorso è un luogo classico della commedia: un equivoco amoroso. “Greco cerca greca” è il laconico annuncio tramite cui, su pressante esortazione di Madame Bieler, Archilochos si decide a cercare moglie, la quale avrà però da esser greca. Il discendente degli achei ritiene infatti che la grecità sia una caratteristica destinata a non perdersi, a dispetto della mescolanza tra ceppi etnici nel corso dei secoli. Di contro alle scarse aspettative, anche per aver così drasticamente ristretto la platea delle potenziali concorrenti, la donna che risponde all’annuncio, Chloé Saloniki, è di incantevole fascino e squisita eleganza – fascino ed eleganza che stonano con la pinguedine e l’accentuata miopia di Archilochos. Eppure, la giovane non solo s’innamora, ma accetta presto di sposare il fidanzato. Di qui, il percorso che attende il Nostro è un viaggio degno di Icaro: le ali fatte di piume e cera con cui il protagonista del libro s’invola verso una gloria fittizia e fugace sono destinate a sciogliersi al fuoco della cruda verità, per lasciargli profonde cicatrici su pelle, muscoli, ossa e nervi.
Una serie di incontri, i cui particolari converrà qui tacere, lo mettono sulla strada di una progressiva illuminazione, appunto iniziatica, in virtù della quale Archilochos dismette le sue lenti puerili, tinte di una morale fasulla, e abbraccia una visione della realtà più adulta e più umana. I vari colloqui con i suoi modelli etici via via figurano nel romanzo come stazioni di una sconcertante approssimazione al vero, che potrebbe sintetizzarsi come segue: il mondo non è uno spazio coerente alla cui ordinata riproduzione presiedono entità morali, ma una congerie di assurdità cui corrisponde una generalizzata indifferenza morale. Più Archilochos fa conoscenza diretta del suo sistema etico del mondo, più il mondo gli si rivela asistematico, imprevedibile, inspiegabile. Il disgraziato protagonista avrà infine la consolazione di una chiave di lettura solida e comprovata dai fatti, tale però da provocargli uno sconvolgimento psichico che lo porterà sull’orlo della sedizione armata, lo farà fiancheggiatore controvoglia di tumultuanti fanatici, e lo trasformerà infine in archeologo dalle alterne fortune. Ma le esperienze di Archilochos, preda di un amaro ma formativo disincanto, credo contino meno dell’esperienza di chi legge il libro.
In effetti, Dürrenmatt descriveva la commedia come una specie di trappola in cui il pubblico è destinato a cadere in modo brusco e inaspettato sino a doverne apprendere l’insegnamento di fondo a suon di ficozzi. E se c’è una chiave che a me sembra più adatta a decodificare il messaggio ultimo di “Greco cerca greca”, questa consiste nella sensatissima conclusione secondo cui il credere nella moralità del mondo sia tanto deleterio e ottuso quanto il credere che, all’opposto, il mondo sia dominato dal male e dal vizio. Se questa mia lettura è corretta, allora l’energia critica del libro non risiede tanto nella messa a nudo del cinico perbenismo sociale, quanto nell’offrire istruzioni a chi vuole sopravvivere in esso senza né collaborarvi né tentare di rovesciarlo.
Sin dalle prime pagine, Dürrenmatt, per bocca dello stesso Archilochos, svela l’anima occulta del testo: il “saper vedere la sostanza” sotto la coltre di un’“apparenza [che] inganna”. Il beffardo problema d’avvio, però, è che quella che il protagonista crede sia la sostanza è invece pura forma o, peggio ancora, una serie di mere formalità. Nelle prime pagine, quando ancora è avvolto nel sonno degli innocenti, Archilochos immagina un mondo in cui la political correctness fa da autentico e sentito codice morale: egli nutre l’assurda convinzione che le persone credano davvero nei valori che professano e non si rende conto che il gioco di società più diffuso al mondo, non solo in Svizzera, è fingere di votarsi al bene quando nel privato tutti lo ritengono non solo inutile ma persino sconveniente. Archilochos fatica a comprendere che la morale convenzionale è un gioco di specchi da inscenare in pubblico, non un fatto di coscienza.
E’ possibile allora che Dürrenmatt voglia additare Archilochos come colpevole di un’ingenuità da cui deve emendarsi? In effetti, lo scrittore da subito lo affresca come “oberato di princìpi e sovraccarico di inibizioni”: un uomo non solo appesantito dal grasso e gravato da una forte miopia, ma che trasforma queste caratteristiche fisiche in disqualità intellettuali. Prima che il suo cammino iniziatico prenda avvio, questo suo ottundimento è la condizione del suo ignaro stato di benessere: “Era più di un sottocontabile. Era un uomo felice”. Archilochos era persino capace di sognare, quando vagheggiava un ritorno alle origini e immaginava un agognato viaggio nel Peloponneso a bordo di un’economica carboniera. Insomma, la sua era la felicità dello stolto, che di grande non aveva neppure i sogni. Quando poi prende avvio la lunga serie di fatti inaspettati che sembra donargli una gloria immeritata, nessuno dei personaggi che egli via via incontra lo riconosce per le sue qualità: tutto quello che Archilochos ottiene, l’ottiene non per qualcosa che egli ha fatto (perché nessuno sa quel che ha fatto), ma per un’apparente macchinazione del caso. E, nel protagonista, il bisogno psicologico di una lettura sistematica della realtà viene frustrato dall’assenza di qualsiasi linea coerente.
Ma egli, per suo massimo cordoglio, una spiegazione alfine la troverà e, per quanto dolorosa, gli consentirà di affrancarsi dalle pastoie del suo chimerico sistema etico. Dinanzi alla deflagrazione, la sconcertata risposta di Archilochos non è quella di chi comprende che nessun concittadino crede davvero nei valori in cui dice di credere, ma quella di chi comprende per la prima volta che è compito del buon cittadino fingere di credervi senza sentirsi minimamente obbligato a farne pratica. Il protagonista, pagina dopo pagina, apprende dunque come la vita sociale sia programmaticamente fondata su una teatrica menzogna, che comanda pubbliche virtù e assolve ogni vizio privato – un regime da falsari di cui tutti sono consapevoli, tranne il miope Archilochos.
L’acme del doloroso viaggio di scoperta, mentre ancora il protagonista tenta di tener fermo il proprio sistema etico, è il confronto diretto con il suo datore di lavoro. Il discorso di Petit-Paysan fa manifesto dei più alti valori morali e civili, quando una serie di inesattezze e lapsus ne palesano il carattere artefatto. Il ricco industriale, appagato produttore di armi di sterminio, intrattiene a lungo Archilochos sulle virtù dello spirito, sulla condanna della mercificazione, sulla giustizia sociale, laddove il suo intento, come presto si scoprirà, è di tutt’altro segno.
Ma il lettore sbaglierebbe se accusasse Greco cerca greca di un facile moralismo di ritorno. Vero: Dürrenmatt passa in rassegna le ipocrisie e le falsità che scudiscia in molti altri suoi scritti, ma qui lo fa con quel sovrappiù di levità che sembra portare giù di un tono la sua opera. Eppure, il tratto caratteristico del libro non è una sferzante quanto comoda denuncia, bensì l’invito a un adattamento creativo al regime di falsari che affiora – e questo è l’elemento che lo rende massimamente utile per resistere al perbenismo pubblico dei nostri giorni. La chiave di volta dell’opera, come potrà constatare chi arriverà al termine di essa, è in effetti la messa a disposizione di un finale duplice: “Fine I” e “Fine II”, quest’ultima da trasmettersi alle “biblioteche circolanti”, cioè quelle che si muovevano su carri o su piccoli bus e si fermavano nei luoghi in cui la gente comune viveva e lavorava. Detto altrimenti, “fine II” è un messaggio per chi non può contare sul vantaggio competitivo della ricchezza o del potere sociale e politico ma vuole comunque scovare un modo per sopravvivere in società.
In “Greco cerca greca” non si troverà pertanto alcun invito a dissestare gerarchie sociali o a mettere a ferro e fuoco le istituzioni, perché ogni sedicente rovesciamento, suggerisce l’autore, è destinato a ricalcare i vizi del sistema che ha rovesciato. Il libro chiama piuttosto a quello che sopra ho definito “adattamento creativo”: muoversi tra i feticci valoriali senza credervi e senza fingere di credervi, ma scavandosi tra questi delle nicchie di vivibilità. Non provare un rancore bilioso che consumerebbe solo chi lo prova, ma dedicarsi pazientemente al poco di poco che la vita consente di metter su. Non optare per l’impossibile scelta dei Padri del deserto, che per fuggire i loro consimili trovavano rifugio nella beatitudine solitaria di una colonna in mezzo al nulla, ma ricavarsi spazi con chi si ama e si stima, senza alcuna pretesa di piacere all’intera umanità. E se qualcuno un giorno, nello scoperchiare la nostra bara, dovesse trovare residui di questo ingrato lavorio sotto le nostre unghie, sarà comunque libero di non eleggerci a santi.