Friedrich Dürrenmatt (LaPresse) 

requiem per il romanzo giallo

Di Friedrich Dürrenmatt ce n'è uno solo. Evitare chi lo prende a modello

Mariarosa Mancuso

Si legga "Il sospetto", è subito un brivido. Lo ristampa Adelphi. "Il sospetto è la farina del demonio", ammette Hans Bärlach, anziano commissario a pochi giorni dalla pensione. Fa parte del "maledetto mestiere", ma appena formulato è difficile liberarsene

Quanto sono bravi gli scrittori quando sono bravi. Neanche le letture massicce tolgono questo piacere – anche se a furia di sbrigare il carrello delle novità, o di guardare la lista dei candidati al premio Strega dandosi pizzicotti per risvegliarsi dal brutto sogno, c’è il timore di rovinarsi per sempre il palato. Nel mucchio da evitare vanno tutti i gialli che a giudizio azzardato ma perentorio dell’autore hanno Friedrich Dürrenmatt come modello (va bene la sopravvalutazione del proprio lavoro, ma qui è la capacità di leggere che fa difetto).

Per provare davvero qualche brivido (quelli che Vladimir Nabokov considerava segno sicuro della letteratura, e quelli procurati da una trama audace) bisogna leggere subito Il sospetto. Lo ristampa Adelphi, tradotto da Margherita Belardetti, ma se ne avete uno già a casa, magari nella storica traduzione di Enrico Filippini, va bene lo stesso. Uscito nel 1951 – Dürrenmatt aveva trent’anni – spiazza il lettore attorno a pagina 10. “Il sospetto è la farina del demonio”, ammette Hans Bärlach, anziano commissario a pochi giorni dalla pensione ricoverato in ospedale dopo un intervento al cuore. Fa parte del “maledetto mestiere”, ma appena formulato è difficile liberarsene.

Il sospetto nasce da una vecchia copia della rivista Life che il malato sfoglia per passare il tempo. C’è una foto del campo di concentramento di Stutthof, a trenta chilometri da Danzica: un medico opera un prigioniero senza anestesia (e un coraggioso ha immortalato il fattaccio per i posteri). Entra l’amico medico Samuel Hungertobel, e ancor prima di consigliare al paziente letture più amene impallidisce. Nella fotografia ha riconosciuto Fritz Emmenberger, proprietario di una clinica per ricchi sfondati nei dintorni di Zurigo.

Secondo la fotografia, l’aguzzino con i ferri del chirurgo si chiama Nehle. Ma il quasi ex commissario e il dottore scovano altri indizi: una cicatrice sul sopracciglio, un braccio ustionato, un’operazione senza anestesia fatta in un rifugio svizzero per salvare la vita a un escursionista infortunato, articoli scientifici scritti con stili così diversi da sembrare opera di due persone. Il sospetto aggiunge dettagli che sembrano coerenti e giustificati, la ragione suggerisce che il medico e il suo paziente – con due strepitosi aiutanti che teniamo segreti – danno la caccia a un fantasma.

Ma poi il commissario indaga e scopre il colpevole? Nei romanzi di Dürrenmatt lo scioglimento e il ritorno all’ordine quasi mai attendono il lettore nelle ultime pagine. Non è Agatha Christie, La promessa ha per sottotitolo: “Requiem per il romanzo giallo”. Il vecchio commissario Bärlach comincia a indagare, e arrivato a un punto morto decide di farsi ricoverare nella clinica dove si sospetta – per poi ritrattare subito: “Ma no, non siamo bestie!” – che i ricchissimi pazienti muoiano dopo aver fatto testamento a favore del dottor Emmenberger. 

Nel suo lettino da malato, ricoverato con il nome di Kramer, Bärlach rischia la vita. Viene scoperto quasi subito, e prima di lui l’amico scrittore Fortschig, incaricato di raccontare i sospetti sul suo piccolo giornale. Come i pittori antichi che si mettevano in un angolo del quadro, Dürrenmatt compare nel romanzo. I pensieri attribuiti a Fortschig sulla madre patria Svizzera sono tutti del romanziere, dal primo all’ultimo. “La città di Zurigo di solito non gli stava particolarmente simpatica, quattrocentomila svizzeri concentrati in un solo posto gli pareva un po’ esagerato”. E gli intellettuali? “Sono caduti in basso: continuano a poetare dei sussurri dell’anima, mentre tutto intorno il mondo cade a pezzi”.