Vittorio Caprioli con la prima moglie, Franca Valeri (foto LaPresse)

Il secolo di Caprioli

Michele Masneri

Era l’altro Sordi. Napoli, Parigi, e  quattro  film di culto che hanno raccontato un’Italia modernissima e nascosta

Nel 1970 mancava ancora un anno al clamoroso exploit del “Fuori”, il fronte unitario gay di Angelo Pezzana, quando nelle sale appariva il primo protagonista espressamente queer del cinema italiano; la storia del corniciaio Alessio, che la domenica riceve a corte abbigliato in drag da principessa Luigi XVI, con un seguito di sgangherati assistenti al soglio pugliesi, calabresi, di Mestre. Cinquant’anni prima di Drag Race Italia appariva nell’Italia del post boom “Splendori e miserie di Madame Royale”, l’ultimo di una quadrilogia di film da regista di Vittorio Caprioli, attore e regista napoletano nato cent’anni fa e morto nel 1989, che raccontò una controstoria dell’Italia del boom. Era, infatti, una specie di anti-Alberto Sordi, che raccontava, sempre all’interno del solco nobilissimo della commedia all’italiana, l’ “ombra” psicanalitica del Paese. Se Sordi e Risi narravano il maschio “square” che è vigile, marito, industriale, mercante d’armi, Caprioli mette insieme negli stessi anni una cosmogonia da camera fatta di personaggi notturni, marginali, invisibili, che come spesso succede raccontano un’epoca come e meglio del mainstream. Anche anticipando i tempi.  “Splendori e miserie” fu scritto insieme a sceneggiatori  “top” come Bernardino Zapponi ed Enrico Medioli e con una mano sotterranea di Franca Valeri, sua prima moglie e complice artistica a trecentosessanta gradi (si “sentono” alcune battute perfettamente valeriesche: “sono i guanti che fanno la vera signora”).

 

Il film  vuole mettere in scena “l’amore puro”, quello cioè, dirà Caprioli in un’intervista, tra un uomo di sessant’anni e una ragazza di sedici, Mimmina, ragazzaccia da lui allevata in una famiglia poco tradizionale, che non starebbe bene nel presepe di casa  Meloni. Figlia del grande amore di lui, un trombettista di nome Cinico, che a un certo punto glie l’ha ammollata, per mai più tornare. All’inizio del film si vede un morto, e sei convinto che la fine di Alessio arriverà come delitto “sorto nei torbidi ambienti omosessuali”, come si diceva allora, mentre lui finirà nei pasticci solo per proteggere questa figlia disgraziata.  Temi non facili, e la censura metterà il veto ai minori di diciott’anni. “Il problema è che tu li prendi sul serio!”, dissero all’epoca a Caprioli, cioè che raccontava la vita di questi personaggi senza metterli in ridicolo. “Un tema inaccessibile?”, gli chiedono in un’intervista. “Direi piuttosto delicato. Un tema che deve essere trattato al di fuori delle compiacenze morbose che caratterizzano innumerevoli pellicole. A me interessa indagare la malinconia, la solitudine” (intervista contenuta in “Quelle come me. La storia di Splendori e miserie di Madame Royale”, di Andrea Meroni e Luca Locati Luciani, PM edizioni).

 

Così c’è la vita di questo corniciaio, che un tempo fu ballerino di Wanda Osiris, e nel tempo libero si traveste da figlia del re di Francia, e ci sono gli amici, c’è la bff “Bambola di Pechino”, che di giorno è un tramviere ciociaro dell’Atac, interpretata dallo stesso Caprioli. Ci sono i cruising all’allora aperto e misterico Colosseo by night. Tognazzi accetterà con entusiasmo la parte “perché è un ruolo completamente diverso da quelli interpretati finora sullo schermo”. Anche “Il vizietto”, che verrà dopo, è cosa tutta diversa. Lì si pigia il pedale del grottesco, qui la mano è più leggera. “Non hai mai l’impressione che si rida di loro, ma c’è una vera compartecipazione alla vita dei personaggi”, dice al Foglio Carlo Caprioli, figlio e attore in proprio.  In “Splendori e miserie di Madame Royale” c’è un cast pazzesco: art director Pier Luigi Pizzi,  fotografia di Peppino Rotunno, musiche di Fiorenzo Carpi, asso strehleriano che farà le colonne sonore di tutti i film di Caprioli. E poi, per la prima volta al cinema anche i Legnanesi, gruppo già celebre di teatro dialettale lombardo.

 

In tutti i film di Caprioli c’è una trama o sottotrama queer. Un grandissimo classico, forse “il” film gay italiano per eccellenza, è “Parigi o cara” (1962), storia della prostituta Delia che finisce a Parigi sulle tracce di un fratello omosessuale. Le escort di “Parigi o cara” raccontano un’Italia del boom come e meglio di tanti film di Sordi e del suo sceneggiatore Sonego. Quanto “boom” c’è nelle considerazioni della escort Soraya che prende il Settebello per Milano (antesignano del Freccia), investendo la cifra cospicua del biglietto in vista degli incontri che potrà fare nella sala ristorante. Anche qui, doppie vite. Delia Nesti (Franca Valeri) è una escort  sussiegosa e spilorcia, che alterna il lavoro sul marciapiede a quello in casa, procurandosi i clienti tramite annunci sul Messaggero. Ma non è la tipica sex worker a cui ci ha abituato il cinema italiano neorealista: non è insomma mamma Roma, proletaria o politicizzata o disperata. Le sue aspirazioni sono piuttosto la radio a transistor e andare a fare il bagno a Ostia, ma non in spiaggia, con tutta quella sabbia. Bensì in piscina, con la “cementite”. Delia ha una serie di battute oggi leggendarie: “Che dici? Famo er gran salto, me faccio cenere?”; “Sa che m’è preso n’altro vizio? Quando che so’ libera, che c’ho n’amico fidato, na cosa, ce n’annamo a magnà all’Eur... Che poi certi palazzi, come che fossero... che je posso dì...? Rudero però tirato ar fine! Insomma, non è moderno lì, vi è antico, però è quell’antico moderno che è la bellezza de Roma!”; “’A fotografia è un veicolo d’orgasmo, chi la vede te vo’ conosce”.

 

Nei film di Caprioli manca il feticcio della classe operaia. Sono tutti poveri che vogliono diventare ricchi o che della borghesia imitano i tic. Da che famiglia veniva suo padre? “Alta borghesia napoletana. Il nonno aveva banche, e anche cinema, a Napoli. Poi persero tutto con la lottizzazione delle terre in Libia. E mio padre dovette reinventarsi da solo". Caprioli “venne a Roma a fare l’accademia drammatica, riuscendo a laurearsi appena prima che chiudesse per la guerra”, passò da Milano (al Piccolo, facendo degli Shakespeare) ma il suo centro, si capisce, è la Francia. Al di là della Traviata (“Parigi o cara noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo. De’ corsi affanni compenso avrai, la tua salute rifiorirà…”), Parigi “per papà era stato il centro di riferimento. Aveva riscosso un enorme successo col teatro dei Gobbi”. Siamo alla fine degli anni Quaranta. Alberto Bonucci (in seguito sostituito da Luciano Salce), Vittorio Caprioli e Franca Maria Norsa (poi solo dopo Valeri), debuttano a Montmartre con un lavoro a sei mani intitolato “Carnet de notes”. “Grande fortuna perché il critico del Figaro, che non doveva esserci,  è in sala. C’è da dire che loro recitavano perfettamente in francese”. Trionfo di questo teatro mai visto, senza travestimenti, senza costumi di scena e senza scenografia. Comicità fulminante: battute, nonsense e tanta mimica. Arrivarono nell’Italia provinciale con questo pedigree, e  gli intellettuali italiani (il Mondo, Flaiano, eccetera), avevano trovato i loro comici. Tornati a Roma, è il successo (appuntamento fisso in Rai) e anche la bohème: un mondo di comici-intellettuali, in cui tutto è “in rete” e “fa sistema”: con Arbasino, Perlini, Patroni Griffi, Enrico Medioli, da Cesaretto in via Frattina (e ogni tanto Gadda guest star). Parigi rimane importante (Caprioli farà una parte in un film di Godard) e gli rimane attaccato un po’ di surrealismo che si vede in tutti i suoi film (del resto porterà per primo Beckett in Italia, nel '54).

 

C'è dunque l'internazionalità che insieme alla napoletanità temprano i pattern tipici della commedia all'italiana. Il finale però è sempre amaro. In “Splendori e miserie”, Tognazzi finisce ammazzato; in “Parigi o cara”  Delia  tornerà in Italia con un marito decisamente sotto le aspettative, pizzaiolo italiano (interpretato da Caprioli). In “Leoni al sole”, finita l’estate, i leoni-vitelloni tornano alle loro occupazioni, in un senso di malinconia infinita. “Bisogna ricordarsi che papà era napoletano, e che l’umorismo napoletano è molto diverso da quello romano. La risata è diversa, il napoletano quando ti prende in giro non te ne accorgi, il romano ti dà una mattonata in testa”, dice ancora Caprioli jr. I personaggi di Caprioli subiscono le peggiori angherie, non ce la fanno mai, in questo seguendo il grande dettato di Sonego, l’inadeguatezza – “piccoli uomini alle prese con grandi avventure” – ma a differenza dei film di Risi o di Sordi i personaggi di Caprioli non si scompongono, rimangono inermi ed eleganti, come personaggi di Tati, in un filo di surrealtà. “Papà aveva una predilezione per coloro che sono marginali: per mancanza di mezzi o anche di voglia, insomma con una marginalità che è soprattutto mentale. Chi  cerca la sua affermazione attraverso le scorciatoie più torbide. In maniera non regolamentata dalla società. L’emarginazione era un tema che lo affascinava. La ricerca della scorciatoia mentale”, dice sempre il figlio.  

 

Rispetto alle commedie di altri autori, oltre al camp delle trame c’è anche il gusto clamoroso e modernissimo dei costumi e degli interni che lo colloca in un’altra categoria. Per “Scusi, facciamo l’amore?”, coproduzione italo-francese del 1968, c’è una carrellata di appartamenti e palazzi milanesi pazzeschi. “Sono tutte case vere, di amici di mia madre, e sua seconda moglie, Virginia Antonioli. Case che magari non erano state aperte neanche per Visconti”, dice Carlo Caprioli. Insomma una ricostruzione più vera del vero di alta borghesia, che sembra evidente abbia ispirato anche un regista come Luca Guadagnino. “Scusi, facciamo l’amore?” è forse il meno conosciuto dei film di Caprioli “ma è il mio preferito”, dice il figlio. Oggi è disponibile gratis su RaiPlay. E anche lì ci sono tutti gli ingredienti caprioleschi: l’alta borghesia; una sottotrama queer; una satira sociale ancorata al perfezionismo visuale che non ha tanti eguali. La storia è una specie di “Rocco e i suoi fratelli” mixata con “Io sono l’amore”. In una Milano ancora nebbiosissima, muore Bebe, leggendario “homme à femmes”, nobile napoletano spiantato, e da Napoli arriva suo figlio, bellissimo e ambiguissimo, che come il padre non ha dubbi, a Milano non viene per fare la Bocconi o fondare una startup, ma per lanciarsi nella carriera di gigolò, grazie al mentore Tassi (Massimo Girotti straordinario escort sulla via del tramonto). 

 

E Milano è popolata solo da queste donne ricchissime in Rolls-Royce che si passano questi maschi anche tra loro (“sì, lo so, mi costa tantissimo”, si telefonano). “Scusi, facciamo l’amore?”, è una specie di simmetrico del “Vedovo”; là una Franca Valeri industriale di successo con marito sfessato romano, qua un napoletano bellissimo che frega tutte le sciure milanesi ma alla fine si butta sugli uomini ("Guarda che per voi ragazzi oggi sono molto meglio: sono più affettuosi, più previdenti, più tutto", gli dice previdente il Tassi). Tra trasferte a Cortina, baroni tedeschi, cameo del conte Nuvoletti, e quasi-cameo dei Fürstenberg tra Vanzina e Visconti (la scena dei Fürstenberg allo stadio del ghiaccio di Cortina sembra presa da "Ludwig", ma poco dopo Lallo, il giovane gigolò, incontra per caso la madre, Valentina Cortese, in una stazione, mentre lei chiede “un romanzo giallo”, scena che finisce poi di peso in Fantozzi).

 

Lallo è interpretato da Pierre Clémenti con un inquietante taglio di capelli alla Arancia Meccanica, per cui ti aspetti che quelle signore industriali “dell’acciaio e delle plastiche” lui le voglia far fuori, ma no, invece lui vuol solo amarle e fatturare. “Clémenti veniva da ‘Porcile’ di Pasolini, fu una scelta forte”, dice Caprioli figlio. “Considera poi che non erano molti a voler fare una parte del genere. Ricordiamoci che John Travolta molti anni dopo rifiuterà la parte di ‘American Gigolò’, e sono già gli anni Ottanta”. Ma Clémenti con la sua faccia da killer sentimentale è perfetto. C’è anche una Franca Valeri quasi-comparsa, nei panni della governante malmostosa, “la Biraghi”, che dice solo due o tre battute, tra cui “i soldi sposano i soldi, a Milano”. E la datrice di lavoro: “Voialtri terun, belli ardenti, appassionati, disonesti: ci siete sempre piaciuti un gran tanto”. E’ un film di incredibile precisione, con questi maschi che passano le giornate in palestra o a fare massaggi o a trovare dei costumi giusti per le feste in maschera. Sembrano certi influencer milanesi di oggi con quelle manutenzioni furibonde del corpo. “Quello che ha speso in creme idratanti e tonificanti lo si potrebbe mungere”, dice una a un certo punto. E la scena del gran ballo in maschera a Cortina coi costumi e l’industrialessa vestita da suora che finisce presa a calci in culo dal gigolò forse è anche meglio del "bottana industriale", o almeno corrispettivo di montagna.

 

E poi c’è “Leoni al sole”, il suo primo alla regia, del 1961. E anche qui, piccolo-grande culto. Un gruppo di seduttori napoletani trascorrono l’estate a Positano aspettando ricche ereditiere da corteggiare e sfruttare. Alla fine della stagione, poi, ognuno torna alla propria vita, alle proprie pigrizie e alle speranze frustrate. Qui Caprioli fa uno di questi leoni-vitelloni, e la Valeri una sinistra giornalista di guide di viaggi, in missione a Positano (oggi: influencer). Il film ha contribuito a creare il mito turistico: l’hotel le Sirenuse e la Buca di Bacco e il profumo di limoni (l’attuale proprietario della Buca, Sasà Rispoli, mi raccontò qui sul Foglio che nel film fece il bambino occhialuto, cui i Leoni concupivano la madre con la scusa di insegnargli il nuoto). Giugiù era invece Caprioli stesso, e Mimì un Philippe Leroy nerboruto-sexy che salta sulle rocce e ruba gioielli a dame americane succhiandoglieli durante baciamani perfetti. Giulia (Franca Valeri), che visita le spiagge eleganti per la sua guida, finisce con l’innamorarsene ma lui, per denaro, sposerà invece una ragazza svizzera, con l’intenzione di divorziare subito dopo. Scisciò, accusato ingiustamente del furto di gioielli, vuole abbandonare il gruppo  per sempre.

 

Intorno, dei giovani anziani che le studiano tutte pur di non lavorare. “E’ un film bellissimo” mi disse qualche anno fa Alessandro Piperno, grande fan. “Fu scritto anche da Raffaele La Capria, l’anno successivo allo Strega per ‘Ferito a morte’, e fu scambiato per un film balneare. Mentre mette in scena l’estate di questi debosciati che però rispetto ai film del genere hanno quarant’anni”. E qui la trovata geniale di Caprioli, il tocco magistrale, è di aver preso il classico film balneare e di averlo trasformato in un film sulla morte, mettendo in scena un gruppo di vitelloni/leoni troppo anziani. Lo sfasamento di età rende il tono surreale-patetico. Anche lì, forse inconsciamente, Caprioli anticipava un mondo, che all’epoca era solo di un certo ambiente, quello in cui si rimaneva adolescenti fino a quarant’anni, potendoselo in parte permettere. Poi tutto sarebbe diventato di massa.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).