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Confusa ma felice

Marittella, la pittrice pura. Simbolo dell'emancipazione sociale degli anni del Boom

Gaia Manzini

Da Torre del Greco a Milano. Maria D’Orlando era povera, anziana, analfabeta, ma era una vera artista. Tra primitivismo inconscio e sapienza tecnica, sapeva dare ritmo ai rapporti cromatici, usare gli spazi in modo organico, aveva grande invenzione decorativa

"Quando faccio un quadro sono consolata”, diceva Maria D’Orlando detta Marittella. Camminava per le vie di Chiantown a Milano, andava lenta aggiustandosi lo scialle sulle spalle. Andava a fare la spesa, ma da quando era arrivata al nord qualcosa in lei era cambiato: si soffermava a fissare i fiori del chiosco, come incantata. Ruotava e inclinava a sinistra la testa per meglio mettere a fuoco la visione dell’occhio sinistro semichiuso e contemplava le combinazioni di colori. Le piaceva il lilla insieme al verde, e non solo: tutti gli accostamenti, anche i più arditi. Una bambina di fronte alla natura. Anche se aveva vissuto in campagna e per il resto della sua vita all’aria aperta, ora vedeva i colori in modo diverso: ogni accostamento le suggeriva forme, linee, possibilità. Non era mai stato così fino ad allora. Aveva sessantacinque anni ed era venuta a Milano da Torre del Greco su invito del figlio Pasquale. Ci era arrivata in pieno boom economico, ma lei neanche lo sapeva; i giornali non li guardava: non aveva mai imparato né a leggere né a scrivere. A dire il vero, non era proprio mai andata a scuola: in vita sua non aveva fatto altro che lavorare. Ora invece si ritrovava pittrice, artista amata e acclamata, presa ad esempio da tutti. Un certo Lucio Fontana le aveva detto che la sua pittura era straordinaria e aveva scambiato con lei delle tele. I dipinti di Fontana li teneva dietro la branda militare dove si coricava ogni sera, a un passo dai fornelli dove cucinava per il figlio. 

 

Lei, un’artista: non era neanche una parola che usava; sapeva solo che ora si sentiva bene come non lo era mai accaduto. Era confusa ma felice. Chi l’avrebbe mai detto. Non aveva mai avuto né un padre né una madre, pensava mentre ritagliava la pagina di un catalogo della sua mostra. Qualcuno l’aveva messa a lavorare già a dieci anni. Guardava le bestie giù in una masseria dalle parti di Cassino, ma stare con le mani in mano senza poter parlare con nessuno non le piaceva per niente, e così era scappata: aveva guardato l’orizzonte e si era messa a correre a perdifiato. Era salita su un treno – un soldato le aveva prestato i soldi del biglietto. Qualcuno aveva tentato di farla scendere, ma lei si era difesa: era una figlia della Madonna, si chiamava Maria! A una figlia di Maria certe cose non si potevano fare. Alla fine, Marittella trovò un lavoro migliore. Basta animali, basta solitudine. Aveva un carretto di erbe e verdure che vendeva lungo le strade di Torre del Greco. Un giorno lì per la strada aveva incontrato suo marito; il marito che ora non c’era più, morto a quarantaquattro anni di stenti, dopo settimane di lavoro mangiando solo due fichi al giorno. Scialone lo chiamavano e accorrevano tutti lungo la via. Era un gigante, era fortissimo, e per scommessa – o semplicemente per vanità – spingeva un carretto di dodici quintali di farina su per una salita. Di fianco a quel gigante si sentiva protetta, lei che era alta solo un metro e quaranta.

 

Ritagliava, Maria, il suo nome e il suo cognome dalla pagina di un catalogo. Era scritto in rosso ed era stato qualcuno a dirle che proprio quello era il suo nome. Lei i suoi quadri li firmava con una croce incorniciata da un cerchio. Le piaceva come risaltava il suo nome sulla pagina. “Quando dipingo mi sento di esprimere tutto ciò che ho nel cuore, tutto ciò che ho vissuto, che ho sofferto e che ho avuto piacere”, aveva detto a Edio Vallini, che aveva presentato una sua mostra alla galleria Fiori Oscuri. Quando dipingeva, Maria metteva sulla tela tutta la sua vita, tutte le sofferenze e tutto l’amore; e spesso il cavallo, sì quel cavallo che si era imbizzarrito e l’aveva fatta cadere. Aveva perso un bambino che teneva in grembo per colpa di quel cavallo. 

 

A Milano Marittella viveva in una casa di ringhiera in via Messina. Le piaceva quel quartiere popolare con le botteghe a livello strada. Per salire fin su a casa sua si dovevano percorrere quattro piani di una scala molto stretta. Gli usci si aprivano sul ballatoio e il bagno era ancora in comune, giù in fondo. Nella prima stanza c’era un fornello a gas, un lavandino, un frigorifero e una branda militare. Nella seconda ci stavano suo figlio Pasquale e l’amico Gordon Vernon, che si guadagnava da vivere dando lezioni private di inglese. Un po’ ovunque erano accatastati barattoli di colore: per fortuna, pensava Marittella. Per fortuna che c’erano sempre i barattoli, perché non appena si metteva sulla sedia per riposare, per mangiare o anche per dipingere, il figlio gliene piazzava due sotto i piedi, altrimenti –  bassa com’era –  non sarebbe arrivata a toccare terra. Era giusto così. Era stato proprio grazie a quei colori che la sua vita aveva iniziato a viaggiare a un’altezza diversa; grazie a quei colori aveva smesso di soffrire e aveva visto l’orizzonte.

 

Si era trasferita a Milano già da qualche tempo, quando suo figlio per gioco le aveva messo davanti un foglio di carta e in mano un pennello. La invitava a disegnare e lei protestava: non aveva neanche mai preso una penna in mano, non sapeva neanche scrivere il suo nome, figuriamoci dipingere. Ma poi aveva provato. Il segno nero che prendeva vita dal pennello le sembrava un’anguilla. C’era qualcosa di magico e di spaventevole in quello che stava facendo, ma quella forma non poteva non avere occhi e capelli. Davanti a quel primo disegno suo figlio non aveva avuto alcun dubbio. L’aveva abbracciata commosso. Era iniziata così la cosa della pittura, pensava Marittella, che aveva quasi finito di ritagliare il catalogo. Non le importava di averlo rovinato: era più importante il suo nome, vederlo scritto davanti a sé. 

 

Da quel primo segno sul foglio Marittella non aveva mai più smesso di dipingere. Non sapeva niente di prospettiva, non aveva alcuna nozione delle proporzioni, aveva solo l’istinto. E un senso violento del colore. Le figure umane dovevano essere grandi, non si potevano fare meschine e piccirille. Nei suoi quadri ci sono bambini che portano i fiori alla madre, ma anche la madre sta mutandosi in pianta. C’è un bambino travolto da un cavallo, ma il cavallo sta mettendo una coda di pavone coloratissima. E poi carretti, facce stilizzate, alfabeti inventati.

 

Scriveva Fontana: “Un giovane pittore, D’Orlando, una sera invitò un gruppo di amici tra cui Dova, Crippa e il sottoscritto, per mostrarci i quadri di sua madre pittrice. A parte l’impressione fortissima del personaggio Maria, commovente e pura nel suo credere, i quadri si immedesimavano in lei. Colore, luce, terra, cielo, fede, un primitivismo esaltante nel credere alla vita”. Le sue “trasfigurazioni” della realtà non derivavano certo da una concezione culturale, ma da un primitivismo inconscio a cui si aggiungeva una certa sapienza tecnica. Sapeva dare ritmo ai rapporti cromatici, usare gli spazi in modo organico, aveva grande invenzione decorativa. Renato Guttuso, in un saggio critico che accompagnava la mostra organizzata dal comune di Milano nel 1973, faceva notare che si poteva rintracciare facilmente la radice delle singolari pitture di quella straordinaria trovatella di Torre del Greco. Bastava essere stati alle feste di paese in Campania, in Puglia e in Sicilia, aver visto le decorazioni fatte con le noccioline, i semi di zucca, le fave e i ceci tostati; i mostaccioli e i pupi di zucchero colorati, argentati e dorati. Nello stesso tempo però le immagini di Marittella sembravano rifarsi all’arte africana o messicana. Era questa la cosa eccezionale: sembrava imitare le culture primitive di cui non sapeva niente. Il suo era un primitivismo inconscio. Questa donna che non sapeva nulla, ma sapeva tutto, perché tutto era infuso nella sua anima e nel suo talento. Il figlio le chiedeva sempre come facesse e lei rispondeva: “E’ come ’na fumata  ‘e sigaretta!”. 

 

Il figlio maggiore era andato in Francia dopo la guerra per scappare dalla fame, ma fu catturato dalla polizia. Come punizione lo costrinsero a mangiare il sapone. In tutta risposta lui fece lo sciopero della fame per diciassette giorni e li costrinse a condurlo davanti al console italiano. Maria, per salvare il figlio più piccolo, Pasquale il pittore, lo mise in una casa di rieducazione a Urbino. Usavano i metodi rieducativi di una volta – cinghiate e botte sulle mani – ma almeno ci si sedeva a tavola a ogni pasto. Fu lì a Urbino che imparò qualche nozione di pittura, ceramica e grafica. Dopo il militare non ne voleva sapere di tornare nelle Marche o a Torre del Greco. Aveva sentito dire che Milano era la capitale dell’arte moderna italiana ed era lì che voleva andare: voleva frequentare Brera, voleva conoscere tutti, voleva essere un artista. Fontana, Dova, Crippa divennero i suoi amici. Non sapeva di aver preso la sua dote pittorica dalla madre. Era stato bello scoprirlo; bello vivere con una mamma anziana complice nell’arte; dipingere all’unisono, scambiarsi consigli, opinioni su colori e forme. Alle pareti del loro piccolo appartamento erano appesi i quadri di entrambi, quelli di Maria si distinguevano per i colori e il tratto più deciso. 

 

Finalmente negli anni milanesi, la madre di Pasquale rideva più spesso, mostrava i suoi bei denti sani. In un servizio dell’Istituto Luce si vede Marittella d’Orlando che sta disegnando su un terrazzo, forse quello di casa sua, forse il lavatoio del palazzo: indossa un grembiule da cucina e ha un pennello in mano. Parla un italiano pieno di intoppi e sgrammaticature, dice di aver trovato un tesoro nella pittura, dice di sentirsi cambiata – è cambiato tutto: il suo presente, ma anche il passato. Tutto quello che è stato, anche i dolori, vengono riletti alla luce della scoperta del proprio talento. Sergio Cossu, fotoreporter negli anni del boom, si era invaghito di questa signora generosa e vitale. L’aveva ritratta per il Giorno in occasione di un pezzo che aveva scritto su di lei Luciano Bianciardi, ma tornava spesso da lei, ci tornava anche a mangiare come uno di famiglia, un altro figlio di Marittella. A lei piaceva cucinare. Soprattutto le piaceva cucinare i polpi che comprava al mercato: brodo di polpi, e polpi ancora di secondo, conditi con olio e limone. Scriveva Luciano Bianciardi che quando Maria si metteva ai fornelli aveva gli stessi gesti di quando dipingeva, o forse era vero il contrario: disponeva il foglio di carta sul tavolo e i suoi barattoli con la precisione di chi dosa gli ingredienti; girava il pennello nel barattolo come se stesse rimestando la minestra. 

 

Quando le mostravano le riproduzioni di opere di grandi artisti e di altri mediocri, capiva sempre dove ci fosse l’arte e dove no. “Lo sento!”, diceva. Nella sua brevissima carriera di pittrice aveva addirittura fatto evolvere la sua arte: dalle forme essenziali e strutturali dei cavernicoli alla disintegrazione della forma in una miriade colori, come una bomba atomica. Fu artista per soli quindici anni, ebbe molte mostre: a Milano, a Lugano, a New York. Marittella D’Orlando, senza mai aver discusso con altre donne, senza aver mai letto un giornale o partecipato a qualche forma di dibattito, incarnava perfettamente il simbolo dell’emancipazione sociale di quegli anni. Aveva incantato tutta Milano con la sua purezza, e non si era mai lasciata intaccare dal mondo esterno, dalla cultura consumistica, dalla corsa al progresso. La sua forza e la sua semplicità espressiva erano la manifestazione vitale di un’alienazione, ma al di là di qualsiasi ricerca del vero, di qualsiasi concessione culturale o presa di coscienza. 

 

A breve saranno quarantacinque anni dalla sua morte, e di lei si parla sempre meno. Ma a Marittella della notorietà non gliene importava molto: le interessava solo quello che faceva la pittura al suo cuore, quella cosa di sentirsi consolata dopo anni di difficoltà e dolore. Chissà cosa pensava mentre ritagliava il suo nome dal catalogo. Era così bella quella scritta in rosso: l’aveva presa tra le mani. Il figlio le aveva chiesto che cosa ne volesse fare, ma lei non aveva risposto. Aveva aperto la porta di casa ed era uscita sul ballatoio. Sulla punta di un pezzo di legno c’era della colla che aveva spalmato sopra il campanello; poi ci aveva appiccicato il suo nome. Quella era casa sua: se qualcuno era interessato alla sua pittura, non poteva sbagliarsi. I quadri però continuava a firmarli con la sua croce: quella croce che raccontava del suo passato. 

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