L'Assemblea regionale siciliana in seduta a palazzo dei Normani (Foto LaPresse)

La folle autonomia della Regione Sicilia

Salvo Toscano

Nel 2008 l’ultimo voto per le province nell'isola, poi commissariate in tv da Giletti. Ma la “rivoluzione” è fallita

L’ultima volta che si votò un presidente della provincia a Palermo correva l’anno 2008. Era il mese di giugno. Barack Obama aveva strappato da qualche giorno lo storico successo alle primarie democratiche, spuntandola su Hillary Clinton, Silvio Berlusconi si era da poco insediato a Palazzo Chigi avviando il cammino di quello che sarebbe stato il suo ultimo governo, l’Inter di Mancini aveva festeggiato lo scudetto – l’ultimo dell’allenatore marchigiano – vinto in volata sulla Roma dopo un girone di ritorno così così. Le elezioni per la cronaca le vinse Giovanni Avanti, Udc, che all’epoca in Sicilia era ancora il partito del potentissimo Totò Cuffaro. Il centrodestra era praticamente invincibile all’epoca nell’Isola e in quella tornata elettorale si accaparrò tutte e nove le province, anche la “rossa” Enna. Dieci anni sono passati da allora. E nessuno, a Palermo o altrove in Sicilia, ha mai più votato per eleggere gli organi di governo degli enti d’area vasta. Mai più. Scaduti i mandati di Avanti e degli altri presidenti eletti in quel periodo, si è aperta la stagione dei commissari di nomina governativa. Stagione che ancora dura, in una sospensione della democrazia che procede da un lustro abbondante e che ormai non fa più né caldo né freddo ai siciliani.

 

La pazza e pirandelliana storia delle province siciliane si compone di una incredibile sequenza di piccoli e grandi inciampi, tra le damascate stanze di Palazzo dei Normanni, sede del Parlamento regionale, e il salotto televisivo di Massimo Giletti. Ed è forse una vicenda emblematica per cogliere l’essenza dell’impazzimento istituzionale della regione e la crisi di quel moloch ormai sbiadito chiamato autonomia. E ancora di più, per fotografare l’italica tendenza – e nell’èra gialloverde sembra quanto mai utile – di legiferare in tv salvo poi scoprire che tra il dire e il fare c’è di mezzo il diritto.

 

“A partire da domani aboliremo le province”, annunciò tra squilli di trombe il neogovernatore Crocetta all’“Arena”, dov’era di casa

Dall’ultima volta che si votò per eleggere presidenti e consigli delle nove province siciliane sono trascorsi dunque dieci anni e due mesi. Quando gli organi erano ormai in scadenza, Rosario Crocetta, allora neo governatore “rivoluzionario” e antimafioso della Sicilia, decise che le province, vecchi arnesi, andavano messe in soffitta e chiuse. Per lasciare posto ai liberi consorzi di comuni. Correva l’anno 2013, per le province si cantava il requiem con toni trionfali. La Rivoluzione cominciò una domenica pomeriggio, il 3 marzo 2013. “A partire da domani aboliremo le Province – annunciò tra squilli di trombe Crocetta all’“Arena” di Massimo Giletti, dove era di casa una settimana sì e l’altra pure –. La mia giunta, in tal senso, approverà una proposta di legge. La Sicilia sarà la prima regione d’Italia che le taglierà dando spazio ai liberi consorzi di comuni”. Tripudio per gli aedi dell’anticasta e passerelle televisive a go-go. “Tutta l’Italia guarda il modello politico della Sicilia e magari dalla Sicilia stessa, ripartirà una nuova Italia”, preconizzò il pirotecnico presidente della regione a casa Giletti. Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo il mare, della politica e delle norme. E in quel mare la riforma dell’“Arena” miseramente si arenò.

 

Al posto delle province nascevano, o meglio sarebbero dovuti nascere nei piani della giunta, i liberi consorzi di comuni. Proprio come prevedeva lo Statuto siciliano, votato prima ancora della Costituzione italiana. Liberi nel senso di liberi tutti: i comuni, infatti, avrebbero potuto decidere in autonomia con chi consorziarsi, anche scomponendo le vecchie province. Nacquero subito i primi litigi, ci fu chi predisse che al posto di nove province sarebbero sorti quindici consorzi, e forse di più visto che servivano 180 mila abitanti per farne uno, vecchie e sopite questioni di campanile si riaccesero, grandi città costrette a subire lo smacco di risultare provincia di centri più piccoli, vedi Gela ad esempio, accarezzarono sogni revanscisti. Invano. Perché tutto rimase lettera morta. Ma all’epoca, nell’entusiasmo generale, questo non si sapeva ancora.

Anche in Sicilia si voterà con elezioni di secondo grado. In autunno, sembrerebbe. Cresce intanto l’elenco dei commissari 

L’Assemblea regionale siciliana una legge la fece, a marzo del 2014, un anno dopo l’editto di Rai Uno. L’Ars votò con ampia maggioranza, quando Crocetta una maggioranza vera e propria ancora se la stava costruendo, arruolando consiglieri regionali uno a uno in una transumanza che durò per un pezzo. Esultò il Pd ma anche i grillini: “L’idea dell’abolizione delle province, come quella della riduzione dei costi della politica – affermarono i deputati regionali 5 Stelle, che all’epoca ancora non consideravano Crocetta un demonio, anzi – è entrata nel Palazzo assieme a noi”. Un successone, insomma. Che il governatore commentò a suo modo: “Chiamerò Giletti per dirgli che la legge Crocetta-Giletti è stata approvata”.

 

E poi? Poi la riforma rimase monca. Serviva una seconda parte che affiancasse alla pars destruens la pars costruens. La si attese per un pezzo. Intanto era iniziata la stagione dei commissariamenti. Che ancora tristemente dura. Si arrivò a partorire l’atto secondo della riforma soltanto alla fine di luglio del 2015, quando dall’annuncio del salotto di Giletti erano passati ventotto mesi. Puntuale arrivò l’impugnativa da parte dello stato, che nel frattempo si era mosso, approvando la legge Delrio che riformava la materia. E a marzo 2016, due anni dopo, eravamo ancora in mezzo al guado.

 

Intanto, in un vuoto normativo senza precedenti, le povere Province boccheggiavano, tutte più o meno alla canna del gas. Con i loro seimila dipendenti e con qualcosa come 180 milioni di disavanzo nei conti, gli enti sprofondarono in un abisso di incertezza. Che per un paio di loro si tradusse in un autentico collasso finanziario, con dipendenti sui tetti a protestare, strade colabrodo che nessuno aggiustava, scuole superiori senza manutenzione. Intanto, la politica continuava a tessere e stessere la tela come una Penelope impazzita.

 

“L’idea dell’abolizione delle province è entrata nel Palazzo assieme a noi”, affermarono i deputati regionali pentastellati

Nel frattempo i liberi consorzi della riforma Crocetta-Giletti erano diventati un po’ meno liberi, perché riscrivendo riscrivendo si era addivenuti al compromesso che i confini dei nuovi consorzi avrebbero coinciso con quelli delle vecchie province. Niente rimescolamento: i nuovi enti sarebbero rimasti identici, per confini e composizione, ai vecchi: tre città metropolitane, Palermo, Catania e Messina, e sei consorzi, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani.

 

Nel resto d’Italia, come detto, si applicava la riforma Delrio e i nuovi organi delle vecchie province si andavano formando con le elezioni di secondo grado, eletti cioè dai sindaci. A quel punto in Sicilia sarebbe bastato prendere atto del tempo perduto, riporre in soffitta i sogni di gloria, e recepire la normativa nazionale, ponendo fine ai commissariamenti che si protraevano ormai da anni. Giammai. La parola d’ordine fu autonomia, un jolly che ogni tanto i politici siciliani ripescano dal mazzo per sparigliare. E proprio in forza di quell’autonomia, il consiglio regionale che grazie alla suddetta a Palermo si chiama Parlamento decise che in Sicilia si poteva fare diversamente rispetto al resto d’Italia, perché il tema enti locali da Statuto rientrava nelle competenze della regione.

 

E così, la politica siciliana decise che quest’idea dell’elezione di secondo livello fosse una boiata pazzesca e che si dovesse continuare come un tempo, con elezioni dirette per scegliere i presidenti e i consiglieri. La destra, soprattutto, ci teneva tantissimo: da quelle parti arrivò la proposta che trovò sponde pure a sinistra. Diceva Nello Musumeci, all’epoca non ancora presidente della regione, con il suo eloquio immaginifico: “Si torni a votare con l’elezione diretta del presidente con il coinvolgimento del popolo. L’unico modo per tagliare le unghie ai partiti bramosi di potere che sono tornati a occupare le istituzioni, mentre mai come adesso serve far sentire la gente protagonista delle proprie scelte”.

 

Al voto, al voto! Pure per le città metropolitane, dove ci si era accordati per far coincidere il ruolo di ex presidente della provincia con quello del sindaco del capoluogo. E siccome allora quei sindaci, da Leoluca Orlando a Enzo Bianco passando per il ribelle Renato Accorinti, nel Palazzo avevano più di un nemico, la norma si cambiò, reintroducendo il voto diretto anche a Palermo, Catania e Messina. La legge regionale, era l’estate del 2017, passò. Crocetta, ancora per poco governatore, dovette soccombere, si espresse contro e parlò di “controriforma”. I suoi avversari, interni ed esterni, esultarono ma nel folle gioco dell’oca delle province avrebbero presto avuto anch’essi la loro dose di delusione.

 

Puntuale arrivò l’impugnativa da parte dello stato, che nel frattempo si era mosso, approvando la legge Delrio che riformava la materia

Si votò, allora? E no. Inizialmente si parlò di organizzare le elezioni a gennaio del 2018. Ma nel frattempo il governo nazionale, c’era Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, impugnò di nuovo la legge. E così si decise di aspettare la Corte costituzionale, prorogando ancora una volta i commissariamenti. La sentenza della Consulta è arrivata quest’estate, con l’ennesimo ceffone al legislatore siciliano. “Illegittimità”, dissero i giudici costituzionali, qualificando la Delrio come una riforma economica e sociale alla quale le regioni a statuto speciale non possono derogare. Sentenza politica? Musumeci, nel frattempo succeduto a Crocetta, lo pensa e lo ha detto, con grande amarezza. Ma la Sicilia ha dovuto arrendersi. E i notabili che sui territori già si preparavano a lanciarsi in campagna elettorale per conquistare un posticino al sole pure. Anche qui dunque si voterà con elezioni di secondo grado. Quando? In autunno, sembrerebbe. E il condizionale è quanto mai d’obbligo, visti tutti i folli precedenti. Anche perché sul come votare, ci sarebbero ancora delle norme da scrivere, almeno secondo le opposizioni. E mentre il balletto palermitano a Palazzo prosegue, nel mondo reale l’ex provincia di Siracusa, che da un pezzo non ce la fa più a pagare stipendi e bollette (hanno pure tagliato il telefono), ha dichiarato dissesto finanziario. E una.

 

E allora non resta altro da fare, per il momento, che allungare ancora e ancora la vita dei commissari governativi e proseguire in quella che è probabilmente la più eclatante sospensione della democrazia rappresentativa della storia dell’Italia repubblicana. L’ultima legge votata dall’Ars, la decima sul tema in sei anni, è servita per prorogare ancora gli incarichi commissariali. I deputati regionali l’hanno votata poco prima di ferragosto. Ancora commissari, quindi. Il loro elenco si è fatto sconfinato, manca solo Montalbano. Ce ne sono stati cinquanta da quando il più grande e pirandelliano pasticcio della disastrata politica siciliana è cominciato, nel lontano 2013. Tra loro superburocrati, generali in pensione, ex magistrati come Antonio Ingroia, che Crocetta mandò a Trapani a mo’ di sceriffo perché era “la terra di Messina Denaro” (sic!). Due milioni e mezzo è stato fin qui il prezzo delle loro indennità (costano ciascuno tra i due e i quattromila euro al mese), calcolava nei giorni scorsi la Repubblica. Il loro lavoro continua, in attesa di conoscere le date delle elezioni di secondo livello. La democrazia, bell’Italia delle leggi fatte in tv, può aspettare. E nessuno sembra più farci caso.