Henri Matisse, “La tavola imbandita”, 1896-’97 (collezione privata)

La grande abbuffata

Andrea Minuz

Cibo, cuochi, cucina, star delle pentole e delle padelle: ecco l’ultimo grande racconto che si snocciola dalla tv generalista fino ai canali tematici più fighetti. Ma noi ne abbiamo bisogno. Come il pane

Tra i remake che vorrei c’è “La grande bouffe” di Marco Ferreri rifatto coi cuochi di “Masterchef”. Chiusi in un loft da giorni, stanchi della televisione e della civiltà occidentale, Bastianich, Cracco e Barbieri si lasciano andare a una lenta agonia esofagea scandita da carbonare destrutturate, flatulenze, escort e gelati all’azoto liquido, finché Cannavacciuolo non irrompe nella casa e, tra le lacrime, li ritrova sepolti vivi sotto una montagna di friselle. Cameo di Antonella Clerici nei panni della maestrina Andrea. Un film, anzi un sicuro premio della critica a Venezia, per fare il punto su questi venti anni o quasi di palinsesto televisivo progressivamente trasformato in un all-you-can-eat. Un po’ come ha fatto “Reality” di Garrone con il “Grande Fratello”. Solo che qui non si intravede il crepuscolo, anzi. Il cibo, i cuochi, la cucina, sono destinati a passare alla storia come l’ultimo grande racconto della televisione, un’epica che si snocciola indistintamente dalla tv generalista più vecchia ai canali tematici più fighetti, dai grandi sughi di mezzogiorno alle creazioni oniriche di “Masterchef”, integrandosi perfettamente con la logica dei social (dopo i selfie, c’è il “food porn”, l’ossessione per il cibo instagrammabile). Il cibo non è più un genere ma una forma che plasma e piega a sé l’intero universo televisivo. La nostra vera, unica, gigantesca ossessione culturale al cui confronto le minacce dell’Isis e la guerra atomica di Kim-Jong paiono preoccupazioni passeggere. D’altronde, dopo ogni attentato, il nostro primo assillo è ribadire che continueremo a riversarci nei ristoranti. Anche il presunto dibattito sulla bambina cristiana adottata da una famiglia musulmana lo abbiamo trasformato in poche ore da una disputa sul multiculturalismo in una querelle sulla carbonara, il suo piatto preferito.

 

Chi ha cominciato per primo con la religione del cibo, noi o la televisione? Diciamo che ci siamo trovati. La cucina in tv c’è sempre stata, ovvio. Ma la “food television”, l’espansione del cibo su tutto il palinsesto e l’instaurazione della “gastrocrazia”, come la chiama Guia Soncini in “La repubblica dei cuochi” (il Mulino), cominciano la loro marcia trionfale nei primi anni Novanta, quando da noi era ancora tutto Vissani. Nel 1993, quando aprì i battenti Food Network, primo canale tematico dedicato al cibo, non ci avrebbe scommesso nessuno. L’idea di parlare di cibo e ricette per ventiquattr’ore su ventiquattro sembrava una follia. Pochi anni dopo, si erano già abbonate oltre cinquanta milioni di famiglie americane, l’incremento annuale dei profitti viaggiava attorno al 60 per cento e cuochi come Emerile Lagasse e Mario Batali erano diventati delle star pari a quelle di Hollywood. Programmi come “The essence of Emeril” e “Emeril live” diventano la punta di diamante di un modo completamente nuovo di intendere la cucina e il “cooking show”. Il Wall Street Journal parlò della scalata di Food Network come di un “miracolo”, un “fenomeno epocale, senza precedenti”. Ma dietro il miracolo c’era l’intuizione formidabile di Erica Gruen, Ceo della rete a partire dal 1996. Fu lei a decidere di indirizzare la programmazione non più verso le persone cui piaceva cucinare, ma verso quelle che adorano mangiare. L’uovo di Colombo. Pari all’idea di quel tizio che parlando del pane disse “e se lo affettassimo prima di venderlo?”. 

 

Si integrano perfettamente con la logica dei social: dopo i selfie, c'è il "food porn", l'ossessione per il cibo instagrammabile

Nel frattempo, noi ci esaltavamo con il risotto di D’Alema. “Abbiamo avuto la sensazione che in questa crisi qualcuno volesse cucinare qualcun altro a fuoco lento. E ci siamo rivolti a un esperto...”, diceva Vespa lanciando il filmato con Massimo D’Alema ai fornelli, in maniche di camicia e grembiule (lo girò Simona Ercolani, autrice televisiva). Poi entrava Vissani. D’Alema lo chiamava “Maestro”. Era il 1997 e in Tv non c’era neanche “La prova del cuoco”.   In Italia non potevamo che iniziare con la politica, perché prima della legittimazione culturale c’è quella delle istituzioni. Vissani diventa il primo personaggio costruito dalla nostra commedia gastronomica, passando nel corso degli anni dalle ricette a “Porta a porta” alle litigate con Diego Fusaro su La7, tra endorsement alla sinistra di Orlando e strizzatine d’occhio a Trump. Il maestro di Baschi, il “Che Guevara della cucina italiana”, come ama definirsi per via delle posizioni scomode sui vegani, sugli Ogm, sulle ragazzine che provocano gli uomini, sulla rucola ovunque, sull’olio di semi e soprattutto per l’intrepida apologia del “ciabottino”, non già la solita pasta acqua e farina di quelle sempre uguali ma col nome sempre diverso a ogni cambio di provincia (strangozzi, stronghezzi, stringhizzi, ecc…), bensì una complicatissima rilettura umbra del cunnilingus, parola di Vissani (“portame ’na ragazza e te lo faccio vedere”). C’era e c’è in Vissani l’antico sapore della Prima Repubblica ma anche il rutto dell’antipolitica, l’Italia dei valori contadini e quella mignottesca di Dagospia, fuse una dentro l’altra in un formidabile intreccio di massime gastrosofiche: “Lo senti quanto è delicato il tartufo bianco? E’ come la scoreggia di un bambino, per quanto è leggero”. A noi in fondo piace così. Meglio il fugace accenno al meteorismo degli angeli che lo spiegone culturale inflitto a ogni piatto, pane e coperto inclusi, come fossimo andati a un reading anziché a cena fuori. Quando Vissani è entrato a “Mastherchef”, Cracco & Co. lo hanno accolto più come un pioniere della cucina televisiva, un padre fondatore, un apripista, che come un collega. “Oggi noi cuochi siamo tutti piccoli attori”, dice Vissani, “come Mel Gibson o Bruce Willis. Quando ci riconoscono è bellissimo”. Però della Tv è stufo. “Ho iniziato trent’anni fa, oggi non lo rifarei, preferisco concentrarmi sui prodotti”. Intanto ha un programma su La7. Prima dell’avvento di reality e talent, nella tv italiana il cibo si muoveva lungo le due grandi narrazioni del “viaggio gastronomico” e dell’economia domestica. Dalla letteratura televisiva di Mario Soldati alla ricerca dei “cibi genuini” nella valle del Po fino a “Linea verde”, passando per gli on-the-road di Davide Mengacci, il “gastrotour” è uno dei generi intramontabili della nostra tv. Qui ci si abbandona alla nostalgia, si sprofonda nel culto rurale e nel folklore dei nostri bei borghi, si odono gli ultimi aneliti di un’unificazione del paese costruita sulla “scienza” dell’Artusi più che sulla lingua di Manzoni.  Gli “instructional”, invece, si dispiegano lungo la linea Ave Ninchi–Wilma De Angelis–Antonella Clerici, fino allo strappo “postfeminist” di Benedetta Parodi. “A tavola alle sette”, programma condotto da Ave Ninchi alla metà degli anni Settanta, si considera un apripista per vari motivi, a cominciare dal fatto che andava in onda di sera, cosa abbastanza insolita per quegli anni.

 

L’evoluzione naturale di questa tv fatta con un occhio allo spettacolo (Altafini che spiegava la “feijoada” a Ave Ninchi) e un altro ai valori di una sana pedagogia nutrizionale è l’arrivo della “Prova del cuoco”, che esordisce su RaiUno nell’ottobre del 2000. La tv è già entrata in un’altra era ma non si vede. L’approccio è familiare, ci si rivolge alla casalinga o a una improbabile famiglia riunita a tavola, tutto è immerso in una sconfinata aria di domenica, profumo di sugo e ritmi dilatati di quella provincia “dove a pranzo si torna ancora a casa”, come dice Antonella Clerici. Rispetto a Ave Ninchi e Wilma De Angelis, Clerici ci mette un po’ di erotismo da B movie all’italiana, quello che “sono goduriosa, ho un rapporto sessuale col cibo” e “il risotto crea intimità più di qualunque cosa”, più vari grembiulini col décolleté da offrire allo spettatore nello zoom sulla besciamella e dunque un inevitabile fandom che sulla rete la celebra come una star di YouPorn. All’opposto, c’è invece Benedetta Parodi. Una specie di controprogrammazione della Clerici. Lì dove tutto è casa, lasagne e pennichella dopo pranzo, qui diventa “fast” e “very practical”. Benedetta Parodi è magra, scattante, cucina in tubino e tacco dodici. Un monumento alla super-mamma urbana che non vuole rinunciare al piacere della cucina, anche se ha la lezione di yoga, pilates, la piscina dei figli, una riunione di lavoro alle tre, l’aperitivo alle sei e una cena finger-food da preparare entro le otto. Prima ancora che due modelli diversi di “food tv” (il relax parastatale della Rai contro il “time code” delle ricette della Parodi), “La prova del cuoco” e “Cotto e mangiato” diventano il terreno dove si danno battaglia due modelli di femminilità italiana alle prese con l’ingombrante eredità del “saper fare da mangiare”. Non a caso, quando si fa sul serio, la cucina diventa affare dei maschi. Il pantheon della “gastrocrazia” televisiva è tutto per loro, forse anche perché neanche i calciatori sono più quelli di una volta (specie ora che il pupone ci ha lasciato). Prima i cuochi di “Masterchef”, poi la new wave con Alessandro Borghese, Chef Rubio, Simone Rugiati venuti su con il montare delle “hamburgherie” e l’infighettamento dello street food, come in “Unti e bisunti”. Figure paterne come Cannavacciuolo, Fedez dei fornelli come Rubio, uomini che non devono chiedere mai, come Cracco. Una nuova parata di mascolinità italiana ridisegnata dentro la cucina. La copertina di GQ dedicata a Carlo Cracco è in effetti, come scrive Guia Soncini, “la più simbolica copertina dell’Italia di questo secolo: una modella nuda (ordinaria amministrazione), un dentice (già meno), e Carlo Cracco”. Carlo Cracco sta a Gordon Ramsey come Ligabue a Springsteen, ma in ogni caso è il testimonial della glamourizzazione italiana dello chef (i cuochi famosi c’erano anche nell’800 ma ora sono glamour).

 

Così la food television ha intercettato la trasformazione del cibo nell'unico grande racconto riconosciuto e legittimato da tutti

Così arriviamo ai palinsesti di oggi e alla nuova era avviata da “Masterchef”. La differenza tra i programmi di cucina generici e i talent si definisce nel famigerato passaggio dalla ricetta alla creazione “in prima persona”. Non c’è più un prontuario da seguire, bisogna guardare dentro sé stessi e trovare l’ispirazione, l’estro artistico. Cucinare diventa una performance perfetta per il nuovo ritmo del linguaggio televisivo, con tutto il suo ricettario di movimenti, gesti, retoriche dell’“empowerment”, dove i menù si intitolano “niente è facile, ma nulla è impossibile”, “istantanea di me”, “emozionanti sorprese”, a metà tra i libri motivazionali in vendita all’Autogrill e un bildungsroman middlebrow. In più, l’ingrediente decisivo della suspense. Si frullano le ostriche e non si sa se si verrà puniti o applauditi come un genio, un po’ come succede nell’arte contemporanea. Se programmi come “Cucine da incubo” lavorano su una risoluzione immediata, chiusa dentro i cinquanta minuti della puntata, “Masterchef”, spalmato su dodici puntate, funziona più come “Games of thrones”, con il viaggio dell’eroe, l’arco di trasformazione del personaggio, le prove, le punizioni, l’elisir. Oppure si rilegge l’archetipo del “gastrotour” con il dispositivo del “game” nell’epoca di TripAdvisor, come in “4 ristoranti”, con Alessandro Borghese.

 

“La tv ormai è una grande abbuffata di programmi che parlano di cibo”, scriveva già Aldo Grasso nel 2004, ma non avevamo ancora visto niente. Perché così tanto successo? Ci sono ragioni produttive, ovviamente (la semplicità della formula, le sconfinate possibilità del product placement) ma certo non bastano a spiegare un fenomeno che ci è palesemente sfuggito di mano. Senza dover scomodare Roland Barthes, Bourdieu e tutti quei pensatori che hanno interrogato le funzioni socioculturali del cibo, diciamo che a un certo punto ci siamo resi conto che “la più naturale delle attività umane”, come scrive Michael Pollan (“Il dilemma dell’onnivoro”, Adelphi), cioè “scegliere cosa mangiare” era diventata in qualche modo “un’impresa che richiede un notevole aiuto da parte degli esperti”. Ve lo ricordate tutti. E’ quel preciso momento storico in cui al posto del menù con su scritto “fettuccine ai funghi” cominciarono a comparire “le storie”, “i racconti”, le allusioni paraletterarie un tempo appannaggio di ristoranti “stellati” e ora sconfinate nella trattoria “al curvone”, con menù che sembrano usciti dal catalogo Adelphi tra “ricordi di scampi al tramonto in Adriatico”, “sentori di astice”, “presagi di branzino”. A differenza del cinema, la culturalizzazione del cibo investe un campo nel quale tutti abbiamo un’opinione, una tradizione orale da tramandare, una capacità di gusto, dunque un campo nel quale tutti possiamo diventare intelligenti. Se è vero, come scrivono Niccolò Gallio e Marta Martina (“Lo spettacolo del cibo”, Archetipolibri), che “con l’evoluzione del linguaggio televisivo il cibo è diventato materiale narrativo con un potenziale attrattivo fortissimo come le narrazioni intorno ai matrimoni, alla ristrutturazione delle case, alla rivoluzione dell’abbigliamento”, è anche vero che a differenza di questi campi la “food television” ha intercettato e guidato un fenomeno più profondo, la trasformazione del cibo nell’unico grande racconto riconosciuto e legittimato da tutti, e oggi può contare su uno “stardom” che faticano a mantenere persino il mondo della musica e dello sport.

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