L’orgoglio della propria storia, la rivalità con i vicini: quasi nessuna città italiana ne può fare a meno (nella foto, i campanili di Bergamo alta)

Paese di campanili

Maurizio Stefanini

L’eterno spirito di fazione. Roma e Milano, Milano e Torino, Livorno e Pisa, Napoli e Salerno: quanti conti in sospeso tra le città italiane

"Canten tucc ’lontan de Napoli se moeur’ / ma po’ i vegnen chi a Milan”, dice “O mia bela Madunina”. Infatti, furono dei meridionali a lanciare il mito di “Milano capitale morale”. Ruggiero Bonghi, filologo napoletano e direttore del quotidiano della Destra storica milanese La Perseveranza, oltre che tra il 1874 e il 1876 ministro della Pubblica istruzione: nel 1881 inventò lo slogan, in occasione dell’Esposizione nazionale industriale di quell’anno. Giovanni Verga, grande scrittore siciliano: nello stesso 1881 scrisse che Milano era “la città più città d’Italia”. Gaetano Salvemini, storico e polemista pugliese: secondo lui, “quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia”. Poi, dopo la “Milano da bere” degli anni 80 e la Tangentopoli dei 90, è stato di nuovo il napoletano Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, che un anno fa nel ricevere da Pisapia il Sigillo della città è tornato a certificare che Milano si è riappropriata “del ruolo di capitale morale del paese, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere”. “Capitale corrotta, nazione infetta” era d’altronde stato l’allarme che Manlio Cancogni, nato a Bologna da famiglia toscana e cresciuto a Roma, aveva lanciato sull’Espresso già l’11 dicembre del 1955. E dalla contrapposizione tra “capitale morale” e “capitale corrotta” si è pure alimentato lo slogan leghista di “Roma ladrona”, cui in realtà l’unica risposta vigorosa è arrivata dalle curve calcistiche: “Solo la nebbia / ci avete solo la nebbia!”, sull’aria di “Guantanamera”. O anche “milanesi / tutti appesi”.

 

 

Però era il romano Stefano Parisi che Berlusconi, dopo averlo candidato a sindaco di Milano, sembrava aver scelto come leader di un modello politico che ha nella milanesità la sua quintessanza. E prima ancora che Roma fosse annessa all’Italia, la grande querelle campanilista su quale fosse la città leader del paese era stata iniziata da Milano contro Torino, con il sindaco Antonio Beretta che al censimento del 1861 alterò addirittura i dati anagrafici pur di dimostrare che la metropoli lombarda aveva 20.000 abitanti in più dell’allora capitale. Non imbrogliò solo su quello, in reltà. Comunque, Vittorio Emanuele II nel 1862 lo fece senatore, e nel 1871 lo avrebbe promosso conte. Ma il suo successore Giulio Bellinzaghi quando in quello stesso 1871 si fece il nuovo censimento e constatò un aumento demografico inferiore alle logiche aspettative ricontrollò i dati e scoprì l’altarino. Micidiale arrabbiatura, visto che quei 20.000 cittadini fasulli avevano rappresentato tasse in più, ormai non rimborsabili. Forse per calmarlo, il re nominò anche lui senatore e conte. Insomma, invece di fare i conti, li fecero conti. Ma altri conti, in sospeso, tra Milano e Torino sono sempre rimasti. Nell’epoca giolittiana fu il grande duello tra la torinese Stampa di Alfredo Frassati e il milanese Corriere della Sera di Luigi Albertini. L’uno fautore del politico di Dronero, l’altro avversario. Fu una contesa editoriale e campanilistica che forgiò il giornalismo italiano, anche se va ricordato che Albertini era di Ancona, e a Dronero è nato pure quell’Ezio Mauro che è stato per vent’anni direttore della romana Repubblica, tra il civitavecchiese di origine calabrese Eugenio Scalfari e il milanese Mario Calabresi.

Pure in quell’epoca iniziò il campionato italiano di calcio, che dopo le iniziali egemonie di Genoa e Pro Vercelli e con la parentesi del Bologna tra 1926 e 1941 e del Torino tra 1943 e 1949 è stato quasi solo un interminabile duello tra la torinese Juventus e le milanesi Inter e Milan. Juventus-Inter fu infatti battezzato da Gianni Brera nel 1967 “il derby d’Italia”, ma la stessa definizione potrebbe ben riferirsi a Juventus-Milan: specie negli anni in cui è stato anche “il derby dei miliardari”, Agnelli contro Berlusconi. In campo pallonaro è soprattutto la Juventus che è stata accusata di furto aggravato e continuato: peraltro, anche dai “cugini” torinisti. Durante la Resistenza fu invece il Cln regionale di Milano che con la scusa di motivazioni strategiche riuscì a scippare a quello di Torino il controllo sulle importanti formazioni partigiane di Biellese, Valsesia e Valdossola. “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, era appunto il titolo del libro di memorie di Pietro Secchia e Cino Moscatelli. E di tentativi di furto analogo sta venendo accusata Milano dai torinesi in due querelle che hanno incendiato la politica culturale italiana negli ultimi mesi. Prima, la storia iniziata a febbraio con la decisione del presidente dell’Associazione italiana degli editori (Aie) Federico Motta di dimettersi dal Consiglio di amministrazione di quella Fondazione per il libro, la musica e la cultura che controlla e amministra il Salone del libro di Torino. Motivo: protestare contro l’asserito scarso peso dato agli stessi editori, rispetto al potere politico. A luglio, dopo che quattro persone sono state arrestate in relazione alla gara per la gestione del Salone, l’Aie decide un clamoroso trasferimento, in modo da creare una joint venture con la Fiera di Milano: 17 voti a favore, 7 contrari e 8 astensioni.

Undici editori per protesta escono allora dall’Aie, accusando le velleità egemoniche del nuovo colosso milanese nato dalla fusione tra Mondadori e Rizzoli. Motta controbatte che oltretutto a Torino sono pure pieni di debiti. Il ministero dei Beni culturali e il ministero dell’Istruzione assieme a Banca Intesa all’inizio si schierano con Torino, ma poi Franceschini propone un compromesso: evento unico, doppia sede, gestione unitaria. Ma da entrambe le parti si risponde picche, e così l’asfittico mercato librario italiano dovrà campanilisticamente suddividersi su due appuntamenti a distanza ravvicinata: Milano dal 19 al 23 aprile; Torino dal 18 al 22 maggio. “Volevano negare la nostra storia!” strilla il sindaco grillino d Torino Chiara Appendino, buttandola decisamente in politica. Ma proprio per buttarla in politica la Appendino ha nel contempo provocato le dimissioni dalla presidenza della Fondazione Torino Musei di Patrizia Asproni, toscana messa lì da Fassino. Conseguenza dello scontro, salta una mostra su Manet che subito viene dirottata al Palazzo Reale di Milano. “Abbiamo soltanto colto un’opportunità utile”, spiega sornione il sindaco Giuseppe Sala. Doppio sgambetto: milanese a Torino, e renziano ai Cinque stelle.

Renzi, però, è fiorentino. Fiorentino come Dante, che definiva Pisa “vituperio delle genti / del bel paese là dove ’l sì suona”, e auspicava “poi che i vicini a te punir son lenti, / muovesi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli annieghi in te ogne persona!” (e “vituperi” si autodefiniscono oggi per questo gli ultras del Pisa calcistico). Fiorentino come Niccolò Machiavelli: comandante della riconquista di Pisa, dopo aver scritto un “Discorso della guerra di Pisa” in cui spiegava che “Pisa bisogna averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria alle mura”. Fiorentino come i Medici, che appunto con Renzi presidente del Consiglio sono stati prescelti come eroi della serie tv che la Rai sta esibendo come fiore all’occhiello per l’esportazione, e che un po’ per volta sottomisero tutta quella Toscana in cui prima di loro, ricorda un famoso poema popolare, “battevano i Cortesi e gli Aretini / specie d’ogni partito guerreggiava. / I Pisani battean coi Fiorentini / Siena con le Maremme contrastava / Chiusi battea contro Volterra / ’un c’era posto che ’un facessen guerra”. E fiorentino come il proverbio “meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”. E’ forse un caso che il fiorentino Matteo Renzi sia divenuto presidente del Consiglio grazie a un blitz ai danni del pisano Enrico Letta? Preceduto, oltretutto, da quel famoso “stai sereno”, che più machiavellico è difficile trovarlo. Firenze si è imposta di nuovo contro Pisa, su cui i livornesi infieriscono da decenni col Vernacoliere, il loro noto giornale satirico. “Nuvola atomi’a. Primi spaventosi effetti delle radiazioni. E’ nato un pisano furbo. Stupore ner mondo, sgomento ’n Toscana”. “Pesceane mangia un pisano. S’è sentito male!”. “Ciampi livornese pulizia etnica. I Pisani si devono lavà”. Ma non è stato forse per fare un dispetto al fiorentino Renzi se i livornesi hanno eletto sindaco il grillino Filippo Nogarin? In compenso Maria Elena Boschi, aretina di Montevarchi, è stata da lui difesa a spada tratta, anche di fronte alle polemiche sul ruolo del padre nel Monte dei Paschi di Siena.

Ma in qualche modo il fare dell’antica banca il primo istituto della Toscana era stato proprio il contentino che i Medici avevano dato ai nuovi sudditi dopo la conquista della Repubblica di Siena, che intanto loro avevano ormai lasciato la loro storica attività di banchieri per diventare granduchi. In teoria, la Campania non dovrebbe avere la stessa eredità di rivalità interne. In pratica, chi un po’ conosce la storia sa perfettamente che prima dell’unificazione normanna per alcuni secoli la regione fu invece spaccata tra la roccaforte bizantina di Napoli e un’area longobarda che ebbe per molto tempo il proprio epicentro nel Ducato di Benevento, anche se poi in realtà l’ultima roccaforte longobarda a perdere l’indipendenza fu Salerno. Per essere più precisi; la Salerno longobarda fu conquistata dagli Altavilla nel 1077, sei anni dopo l’araba Palermo e l’ultima roccaforte bizantina di Bari. Si dice spesso che si deve a arabi e bizantini lo splendore del regno normanno del Sud, ma a guardar bene è a Salerno che era nata quella Scuola medica che dà in pratica origine all’Università moderna; a Salerno operarono grandi intellettuali come Alfano di Salerno, Lorenzo di Amalfi, Costantino l’Africano, Trotula, Desiderio di Montecassino; e anche la più antica testimonianza della lingua italiana, il famoso “Sao ko kelle terre” del Placito cassinese del 960, viene dalla “Langobardìa minor” campana. Il ricordo di quei fasti magari non è molto vivo, ma chi gira per la provincia di Salerno si accorge subito della ripugnanza dei locali a farsi confondere con i napoletani e con i loro stereotipi di inefficienza.

Con tutta l’immagine di disastro sul fronte dei rifiuti che ha la Campania tra i mucchi di immondizia di Napoli e la Terra dei Fuochi, in particolare, vanno ricordati quei comuni in provincia di Salerno che già nel 2005 di fronte a una media europea di raccolta differenziata del 26 per cento avevano raggiunto addirittura il 71,8 (Belizzi) o il 62,9 per cento (Fisciano). E’ un caso che Vincenzo De Luca dopo aver subito attacchi a catena da parte di Luigi de Magistris a un certo punto abbia colto l’occasione dell’apertura e riqualificazione dell’ex discarica nel comune di Baronissi per ricordare quasi distrattamente: “Dobbiamo avere una raccolta differenziata che su base regionale arrivi al 65 per cento e Baronissi da questo punto di vista è un comune virtuoso, ma dobbiamo incrementare soprattutto nella città di Napoli la raccolta differenziata perché siamo poco sopra il 20 per cento e soprattutto dobbiamo realizzare decine di impianti di compostaggio per la lavorazione dell’umido”? De Luca è appunto lucano di nascita ma salernitano di adozione, e presidente della regione Campania dopo essere stato per 17 anni sindaco di Salerno, oltre a essere un importante rappresentante del Pd per il Sì. Anche il Veneto si trovò diviso tra longobardi e bizantini, che si arroccarono sulla laguna. Verona fu la prima capitale longobarda, prima del trasferimento a Pavia.

I veneziani approfittarono poi dell’indebolimento dell’Impero romano d’oriente per farsi indipendenti, e si conquistarono anche un impero nel Mediterraneo, ma solo tra XIV e XV secolo riuscirono a imporsi nell’entroterra. Verona, il cui sindaco Flavio Tosi si è ribellato alla Lega per avergli preferito Luca Zaia alla guida del Veneto, fu la città da cui i Della Scala a lungo si opposero ai tentativi di conquista veneziani, infine portati a termine nel 1405. In teoria, il trevigiano di Conegliano Zaia non dovrebbe essere assimilabile a questo imperialismo veneziano. In pratica, Treviso nel 1339 divenne il primo possedimento veneziano di Terraferma proprio per sottrarsi a Verona. Senza che ci sia andato di mezzo il re Alboino, storica è anche la rivalità tra Palermo, Catania e Messina, come attestano d’altronde gli slogan delle opposte tifoserie calcistiche. Dai messinesi ai palermitani, ad esempio: “Fai schifo rosanero / sei nero come il sorcio / sei rosa come il porco”. Da palermitani ai catanesi: “Catanese và a cacà / prima o poi tutta Catania brucerà / noi verremo nella notte / con le spranghe vi daremo tante botte”. Mentre palermitani e catanesi assieme rubricano i messinesi nella categorie della “Sicilia babba”, per spiegare la quale è d’obbligo una citazione da Gesualdo Bufalino: “Vi è una Sicilia ‘babba’, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia ‘sperta’, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode”. A Palermo, appunto, è sindaco Leoluca Orlando: versione più attempata di De Magistris. A Catania, Enzo Bianco: ex Pri oggi notabile renziano (e alla città metropolitana di Catania ha aderito la Gela del governatore Rosario Crocetta, anche lui oggi schierato per il Sì).

A Messina, Renato Accorinti: ex radicale, ambientalista, pacifista, ammiratore del Dalai Lama e nemico del ponte sullo Stretto, che è quasi una variante di grillismo ancora più grillina del modello. Ma tutta l’Italia, si sa, è un paese dei campanili, piuttosto che dei campanelli. Nel 1970, quando le regioni dovettero scegliere i loro capoluoghi, ne vennero fuori la rivolta di Reggio Calabria contro Catanzaro e quella dell’Aquila contro Pescara. Nel 2014, quando si riparlò dell’ipotesi di fondere le autorità portuali di Genova e di Savona, le tabaccherie savonesi misero in vendita una calamita-gadget con uno squalo affamato sulla scritta “Genova”, mentre i portuali manifestavano con striscioni “giù le mani dal porto” e ricordavano quando nel 1528 la Repubblica di Genova il porto di Savona lo fece addirittura interrare. “Lo scudetto il Parma lo sogna / piuttosto che a lei va a Bologna”, cantavano sull’aria di “Va’ pensiero” i tifosi rossoblu all’epoca in cui la squadra di Callisto Tanzi vinceva coppe a ripetizione. Non c’è stata nella prima storica vittoria grillina di Pizzarotti anche un moto contro il modello “bolognese” storicamente imposto da Pci-Pds-Ds-Pd, anche se poi lo stesso Pizzarotti è diventato per Grillo una spina nel fianco? Per concludere, di nuovo dal calcio in politica, e ricordando il “Derby dell’Appennino” tra Fiorentina e Bologna, nel 2005 quando il Bologna finì in B si disse che era stato per colpa delle trame ordite dalla Fiorentina di Della Valle. E come finirà tra il fiorentino Renzi e l’emiliano Bersani?

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