Ascoltare l'acqua

Mariarosa Mancuso

Il corpo e la voce di una ragazza, il sud, il realismo abbandonato. “Addio fantasmi” di Nadia Terranova

Ultimo carotaggio in vista del Premio Strega – stasera la gran bevuta di festeggiamento, direttamente dalla bottiglia – e riassunto delle puntate precedenti. Il mondo visto dalla cinquina ha finora in catalogo i tradimenti coniugali (Marco Missiroli con “Fedeltà”), una (giovane) vita trascorsa tra Brooklyn, la Basilicata e Londra (Claudia Durastanti, “La straniera”), e due romanzi storici. Il primo scritto per dilettare i lettori (“Il rumore del mondo” di Benedetta Cibrario), l’altro scritto per illustrare minutamente – in quota antifascismo – la salita al potere di Benito Mussolini (“M. Il figlio del secolo”, Antonio Scurati).

 

A pagina 69 di “Addio fantasmi”, Nadia Terranova accoglie il lettore con “La vita è un battito di ciglia”, titolo del capitolo (la pagina precedente ha in alto il titolo della sezione, “Il corpo”, mediana tra “Il nome” e “La voce”, scopriamo dall’indice). Si direbbe il sud, con un punto di vista personale, una presa di distanza dal realismo, l’annuncio di un romanzo di formazione: “Mentre un’intera regione soffriva il caldo per colpa mia, mentre le case dei miei compagni si svuotavano dell’acqua che il nome di mio padre scaraventava tutta addosso a me, quell’estate diventavo grande”.

 

Il corpo, e la voce che racconta, appartengono a una ragazza: “Reggiseni con i ferretti conficcati nello sterno, scarpe da ginnastica in tela, braccialetti di gomma fluorescenti”. La narrazione in prima persona fa sì che ci si debba descrivere da soli, compito che una volta si accollavano i narratori che tutto sapevano e tutto vedevano. E lenti a contatto morbide, scelte assieme a una madre che si sventaglia per il caldo (è decisamente il sud).

 

Serve un po’ di addestramento, ma si impara: “Ero diventata brava subito, come accade nelle discipline che impariamo al confino, in una solitudine lontana dalla distrazione degli altri”. Il realismo viene abbandonato un’altra volta – pare diventata una brutta parola dei tempi andati, ciarpame ottocentesco, poi appena arriva una serie come “Chernobyl” siamo tutti lì, attaccati allo schermo a dire “ancora ancora”. Entrano il confino, la solitudine, la distrazione, la lontananza: un po’ troppo, per un paio di lenti a contatto messe con destrezza.

“Niente più angoli sfocati, niente vista appannata e sporca”: un fatto, più convincente delle ricercatezze linguistiche e psicologiche (anche se “sporca” rivela che la tentazione se ne sta sempre lì, acquattata). Viene in mente uno straziante racconto di Anna Maria Ortese, “Un paio di occhiali”: Dopoguerra, alla bambina dei bassi napoletani la zia regala un paio di occhiali, lei si affaccia alla finestra dell’oculista per provarli e dice “che bello il mondo”, ma quando torna nel tugurio vede solo sporcizia e stracci.

A fondo pagina 69, comincia a profilarsi la trama (assieme al progetto materno): “Seppellire la mia infanzia e la nostra disgrazia, farmi aprire all’estate, alla luce petulante” (“petulante”, sì, è una dura battaglia e si indovina che potrebbe avere come terreno di scontro tutte le 196 pagine del romanzo, comunque grazie per la lunghezza non smisurata).

 

Controprova a pagina 99, capitolo “Cose terribili come se fossero normali…”. Con i puntini di sospensione, si potevano togliere senza danni. E’ vero che la frase torna, per intero, ma i titoli sono titoli, e gli scrittori non devono mostrare incertezze. Le cose terribili sono un padre sparito, forse per mare. Il corpo non è stato ritrovato: “Da quel momento in poi, io avrei ascoltato l’acqua”.

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