(Foto Pixabay)

Buttarelli, la vedova Buttarelli (sua madre) altre donne e un fallimento naturale

Ugo Cornia

La vita è “dispari”. Servono le istruzioni per l’uso di Paolo Colagrande

Una nuova specie di narratore, che può darsi coincida con lo sguardo esistenziale di Paolo Colagrande, riesce a crearsi una voce che sta a metà tra quella di un narratore onnisciente e quella di un narratore più contemporaneo, il narratore fallito e aperto al mistero, e decide, facendo affidamento sulle testimonianze decisamente “centrifughe” di Vilmer Gualtieri, suo zio, di ricostruire la vita e le avventure di tale Buttarelli, antico conoscente di Gualtieri. Nel momento in cui la storia si narra, così ci viene ricordato, Gualtieri e tutti gli altri testimoni sono già morti almeno da una quindicina di anni.

 

Buttarelli, è giusto saperlo da subito, era un uomo che come raccontava Fosforo (altro testimone) “aveva la faccia impregnata di fatalità”. Subito dopo sapremo anche che Buttarelli “aveva l’ossessione per le differenze e per le divisioni, prima fra tutte quella biologica tra maschio e femmina”. Così, mentre frequenta la quarta elementare e studia i molluschi, si imprimerà fortemente nella sua giovane mente lo squilibrio di dimensioni tra il maschio di cefalopode Argonauta Argo, che non supera i dieci millimetri di lunghezza, e la femmina, che può arrivare ai venti centimetri. Tali scoperte, imprimendosi in una mente vergine, creano alcuni “falsi dogmi” che possono dar luogo a una visione del mondo adulto che si forma attraverso un “metro sperequato”.

 

È questo metro sperequato che permette a Buttarelli bambino di tollerare, come se fossero eventi normali, le persecuzioni che subisce quotidianamente dalla direttrice del convitto Dioscoride Polacco, Maribèl, un donnone di quasi due metri, a causa della sua inappetenza e dei suoi problemi di apprendimento (non riesce infatti a leggere le pagine pari, cioè di sinistra, di libri, quaderni e qualsiasi altra cosa che si presenti come due colonne). Trasferitosi poi al collegio Ferrabosco, lì Buttarelli ha occasione di imparare bene il “senso del tumulto”. Mentre il metodo scolastico dovrebbe insegnare “l’eccellenza e la centralità dell’uomo come misura di tutte le cose”, il senso del tumulto è un corpo spontaneo che “cresce sul cosiddetto metodo scolastico” e ha la stessa sostanza di “un cumulo di relitti sulla riva del mare”. Buttarelli sviluppa anche il “senso del disinteresse”, che ha “un’ampiezza di visuale che nell’interesse non c’è”. Per il resto, delle due scuole frequentate, Buttarelli ricordava soltanto frequenti stati di nausea e l’esperienza di “una lunga scampagnata dentro un campo minato e sotto un bombardamento aereo, uscendone più o meno come ci era entrato”.

 

Adesso comincia l’epoca del liceo ginnasio Publio Papinio Stazio, e Buttarelli lo affronta nel suo solito stato d’animo, “cioè guardando il mondo da una condizione di quasi invisibilità che derivava dalla percezione di sé come creatura non superiore ai dieci millimetri. E anche la sua vocazione al disinteresse, che registrava tutto senza focalizzare, era rimasta intatta”. Ma avendo lasciato convitto e collegio, Buttarelli torna a vivere presso la vedova Buttarelli, “che era poi sua madre ma siccome per tutti era la vedova Buttarelli vien naturale continuare a chiamarla così, come abbiamo fatto fino adesso”. Verrebbe da dire che questo romanzo si componga di un magistrale uso di continue piccole dissonanze che stimolano continuamente la nostra percezione delle parole che costituiscono la storia, perché mettono sempre le cose e le situazioni un po’ fuori posto. Del resto devono essere storte le cose che compongono una vita che, come si dice nel titolo, è dispari.

 

E infatti tra Buttarelli e la vedova Buttarelli vien fuori un bellissimo rapporto che ha qualcosa di una doppia esteriorità piuttosto che di una intimità. E quando Buttarelli cadrà nella tipica stagione fertile del cefalopode maschio e inizierà a sviluppare una certa passione ideale per una sua compagna di liceo, invece di parlare, forse per una scarsa fiducia della dimensione orale della lingua, inizierà a scrivere delle lettere alla vedova Buttarelli, che gli risponderà sempre anche lei via lettera. E come consigliava di vivere la vedova a suo figlio? “Gli raccomandava… di continuare a fare quell’insieme di azioni mediocri che formano il cosiddetto senso comune, e di cercare di non essere se stesso per una percentuale superiore al venti per cento”.

 

Sviluppata ormai da Buttarelli questa forma di relazione col mondo seguiranno nel tempo: il suo fidanzamento in contemporanea con otto compagne del liceo, che si risolverà come ovvio in catastrofe (anche se vissuta nella solita vocazione al disinteresse), una laurea in ingegneria, il lavoro nella ditta Idrom di Meloncelli commendator Silvano & Co. S.p.A., un matrimonio seguito da una paternità, un grande amore, e il normale evolversi verso il naturale fallimento della vita. Ma adesso che ci penso, avendo appena finito il libro, come si chiamava Buttarelli? Mario, Giovanni, Adolfo? Non lo so. Secondo me non c’è scritto. Abbiamo appena finito di leggere una vita e ci accorgiamo di non sapere che nome aveva il protagonista. Concludo così: leggete questo romanzo, La vita dispari, ed. Einaudi, perché è bello dalla prima all’ultima pagina.

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