L'Amministrazione Nixon e il continente africano

Ermes Antonucci
a cura di Antonio Donno, Giuliana Iurlano
Franco Angeli, 324 pp., 28 euro

    Siamo alla fine degli anni 60, in piena Guerra fredda. Con l’ingresso di Richard Nixon alla Casa Bianca si apre la fase di distensione dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Sotto il velo della détente, tuttavia, il vortice di tensioni che vede coinvolte le due principali potenze internazionali, e con esse il mondo intero, non si arresta e, anzi, sposta i suoi riflettori su un continente fino ad allora rimasto ai margini del latente conflitto globale: l’Africa. Mentre americani e sovietici strattonano a turno il filo su cui poggia il precario equilibrio mondiale, il continente africano viene stravolto dalla nascita di una miriade di nuove nazioni, affrancatesi dopo una lunga battaglia dal secolare colonialismo dei paesi europei. Mutamenti che attirano nell’area l’attenzione dell’Unione Sovietica e della Cina comunista. Così, Washington, che fino a quel momento aveva concentrato le sue preoccupazioni sul medioriente, cambia rotta. Abbandona l’immobilismo terzomondista di Kennedy, e con il presidente Nixon, spalleggiato dal segretario di stato Henry Kissinger, inaugura una politica estera in Africa fondata su realismo e concretezza, destinata a far sentire i suoi effetti sull’intero quadro internazionale. Il volume analizza, attraverso gli interventi di numerosi esperti e studiosi di politica internazionale, proprio l’approccio tenuto dagli Stati Uniti nel continente africano nella prima metà degli anni 70. Emblematica del cambiamento di paradigma americano fu la vicenda del Sudafrica: un paese segnato dal sanguinoso regime dell’apartheid, per questo sempre più al centro di sanzioni da parte delle potenze democratiche, inclusi gli americani, e che però allo stesso tempo assumeva per quest’ultimi un ruolo cruciale non solo dal punto di vista economico (con le sue vitali materie prime, anche per la produzione di armi nucleari), ma soprattutto da quello geopolitico, per la difesa dell’intera regione meridionale dell’Africa dalla penetrazione comunista. Accusare eccessivamente, poi, il regime di Pretoria per le sue pratiche discriminatorie, avrebbe significato per le amministrazioni statunitensi esporsi al rischio di un insidioso effetto domino da parte dei movimenti di liberazione delle persone di colore presenti in territorio americano, allora nel pieno della loro mobilitazione nella lotta al razzismo e ancora scossi dall’uccisione del leader Martin Luther King. Insomma, nel mondo era in corso un conflitto, seppur silenzioso, e ciò richiedeva che le esigenze di sicurezza, internazionali e interne, venissero poste al vertice di ogni azione di politica estera, anche se questo significava mantenere l’alleanza con un paese fondato su un sistema antidemocratico come quello dell’apartheid. Calcoli freddi per combattere una guerra fredda.
    Le incertezze di Johnson e Kennedy vennero così spazzate via dall’estremo realismo di Kissinger, in favore di un piano più confacente agli interessi di Washington e di tutto l’occidente. Furono così prima indebolite e poi annullate le sanzioni economiche nei confronti del regime di Pretoria decise dalle amministrazioni precedenti, e fu attenuato l’embargo sulle armi stabilito nel 1963 da Kennedy, in modo da rafforzare i propri rapporti economici con il paese e mantenere lo status quo nella regione. “Comunicazione” con il governo di Pretoria non significava “appoggio”, accettazione dell’apartheid: questa fu la spiegazione data dal governo Nixon al consolidamento dell’alleanza con il “Leviatano locale” sudafricano. Una linea in apparenza ambigua, ma che finì per contribuire alla difesa dei valori della libertà e della democrazia allora posti sotto attacco.    

     

    L’AMMINISTRAZIONE NIXON E IL CONTINENTE AFRICANO
    a cura di Antonio Donno, Giuliana Iurlano
    Franco Angeli, 324 pp., 28 euro