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Addio accordo col partito di Putin. E vai a capire se Salvini ci è o ci fa

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Leggo le opinioni del prof. Canfora su Stalin, la cui azione sarebbe stata “positiva” per la Russia. Presumo che il professore si riferisse all’avanzata verso il socialismo: una valutazione quindi in termini di efficienza pur se al prezzo, indubbiamente “aspro”, di milioni di morti. Mi riesce difficile immaginare una concezione più vicina di questa alla dottrina (nazional)socialista.
Piero Severi

Ci sono stalinisti che non cambiano idea e cercano di essere coerenti con la propria visione del mondo. Ci sono putiniani invece che cambiano idea e che scelgono di rinnegare la visione di un mondo che pure avevano abbracciato. Del primo mondo fa parte il professor Luciano Canfora. Del secondo mondo, a sorpresa, ieri ha scelto di far parte Matteo Salvini, che dopo aver rinnovato nel 2022 un accordo di collaborazione con il partito di Putin, Russia unita, e dopo averlo fatto in piena invasione ucraina, ieri finalmente ha detto quello che non aveva mai detto nei sei anni precedenti: l’accordo con il partito di Putin, per la Lega, non vale più. “I propositi di collaborazione puramente politica del 2017 tra la Lega e Russia unita non hanno più valore dopo l’invasione dell’Ucraina. Di più. Anche negli anni precedenti non c’erano state iniziative comuni”. La dichiarazione è positiva e va elogiata. Resta il fatto che Salvini ora si ritrova con un altro problema: qualsiasi cosa dirà contro Zelensky, contro l’occidente, contro la Nato, e qualsiasi dichiarazione farà per non colpevolizzare eccessivamente Putin, lo dirà dunque non perché deve, per contratto, ma perché ci crede. Spasiba, Matteo. 


Al direttore - Uno non vale (necessariamente) uno. E’ in questa formula un po’ ellittica che potrebbe riassumersi il senso convergente di due episodi della vita pubblica verificatisi, in singolare ma evidente coincidenza, negli ultimi giorni. Da un lato, l’iniziativa del governo che, rompendo un risalente e ipocrita tabù, ha deciso di individuare un limitato numero di posizioni (con qualifica di funzionario) all’interno dell’apparato pubblico, da remunerare con stipendi più alti in ragione del maggior valore aggiunto atteso dalle loro prestazioni lavorative. Si è parlato a riguardo di “superfunzionari”, un’espressione che – piaccia o meno  – rende abbastanza l’idea che ha ispirato l’innovazione. Allo stesso tempo, il leader della forza politica che più di ogni altra negli ultimi anni ha fatto della formula dell’“uno vale uno” un tratto quasi identitario, l’ha rimessa pubblicamente in discussione. Una casualità che i due accadimenti siano contemporanei, o il segno del principio di una nuova tendenza? E’ difficile dare una risposta sicura, quel che e certo è che l’effetto combinato potrebbe finalmente rendere meno difficile la riapertura, anche (o forse, sarebbe il caso di dire, persino) in Italia, del dibattito sul merito, con riguardo alla vita pubblica.  Ignorando financo l’inequivoco messaggio fissato in Costituzione (che distingue, considera e valorizza i “capaci e meritevoli”, categoria logicamente necessaria alle sorti di ogni paese), l’Italia si è infatti sforzata, negli ultimi decenni, di abbracciare a ben vedere una sorta di illogica terza via, che potremmo riassumere nella cultura del “non demerito”, agli effetti degli incarichi pubblici. Un’impostazione, questa, nella quale non si parte dall’alto, cioè dal talento individuale (pure, innegato e innegabile in tanti “altri” campi, dalle arti allo sport), ma dal basso. La selezione è fatta, cioè, al contrario. Secondo la cultura del “non demerito”, è sufficiente l’assenza di macchie (giudiziarie, o comunque ancorate a paradigmi legati di regola alle volubili morali correnti), per poter assumere qualsiasi incarico pubblico. Anche quelli di maggior rango costituzionale, o, persino, a forte caratura tecnica. Per diretta conseguenza, ne è derivato il corollario che non c’è motivo di remunerare diversamente (ovvero secondo gradazioni legate al “di più” che il talento può offrire alla e nella Pa) tutti quelli scelti (solo) perché non demeritanti. In tal modo, praticando cioè un’eguaglianza forzata che aggiunge nuova (autolesionistica) diseguaglianza alle altre rimaste irrisolte, un paese pur straordinario come l’Italia sta da oltre due decenni affondando sé stesso nella dolente litania sospesa fra cervelli (misteriosamente?) in fuga e indifferenziate e piatte spending review, a tutti i livelli, nella Pa.
Massimiliano Atelli


Al direttore - Caro Cerasa, la notizia pubblicata dal Foglio di una mia eventuale candidatura alle elezioni europee è priva di fondamento. Mai è stata evocata a me da Elly Schlein o da altri. E le parole a me attribuite nell’articolo non sono mai state da me pronunciate con chicchessia. Grato per la pubblicazione.
Piero Fassino

Prendiamo atto della sua nota. Ma confermiamo la bontà della nostra ricostruzione. Un caro saluto.

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