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Lettere

Che fine fanno le promesse dei partiti estremisti arrivati al governo

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Accade forse in Europa (amministrative, in Italia e Spagna, quindi facciamo pure la tara: ma Sánchez, come D’Alema tanti anni fa dopo analoga sconfitta, attende il voto nazionale) quanto accadde negli Usa dopo gli otto anni della superstar Obama? Uno zoccolo duro – vecchia ma funzionale espressione – delle popolazioni “bianche” che non ne possono più di una certa visione, e non solo chiedono ordine e amministrazione local, ma anche una diversa visione glocal e global? Negli Usa durò il tempo scombiccherato di una presidenza che però insiste e ci riprova, Trump, nonostante il candidato repubblicano di Elon Musk sia il potenziale vincitore contro Biden. In ogni caso, un occidente tradizionalista, conservatore e no-cancel culture. Stufo. Depresso, economicamente e non solo. Che esige attenzione.
Luca Rigoni

In verità, mi sembra che l’Europa vada verso una direzione diversa. I partiti di destra e di sinistra rincorrono gli elettori moderati. I partiti estremisti che arrivano al governo si lasciano alle spalle molte promesse estremiste. E i partiti che si lasciano alle spalle le promesse estremiste di solito cercano una scusa per lasciarsi alle spalle anche i vecchi alleati non allineati con la stagione della moderazione. 



Al direttore - Non arriverei a sostenere che le partite concernenti il futuro di Tim e di Ilva siano più importanti di un successo, o comunque dell’assenza di ritardi e di complicazioni nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza che resta cruciale, sopra ogni altra iniziativa, innanzitutto per la credibilità e l’affidabilità del governo e dell’Italia. Ciò non significa, però, negare una particolare importanza alle due partite. Queste, come altri interventi, ivi compresa l’operazione Ita-Lufthansa, presuppongono in ogni caso una visione finora inespressa dell’intervento pubblico in economia, delle finalità, dei limiti, delle opportunità, delle necessarie coerenze con la Costituzione italiana e con il Trattato Ue. Va bene il pragmatismo, ma questo deve essere retto da una impostazione politica non dirigistica, da un lato, e che non consideri la mano pubblica alla stregua del “guardiano notturno”, dall’altro. Lo spazio intermedio è comunque vasto e va chiarito. 
Angelo De Mattia


 

Al direttore - L’emergenza rifiuti a Napoli durò 18 anni: è un pezzo amaro di storia italiana, impressionante, ma istruttivo, ai limiti dell’incredibile. Racconta di ecoballe, di governi alle corde, di tribunali, criminalità, roghi, sversamenti, epidemie, navi, treni e di altro ancora: 11 furono i commissari a succedersi. Nel ’98 fu bandita una gara per realizzare gli impianti al servizio dell’intera regione: vinse tutto la cordata con il prezzo più basso, troppo basso purtroppo. Non se ne fece niente, eppure il tutto avrebbe potuto chiudersi già lì. Invece ebbe inizio uno stillicidio di non decisioni e di colpi di scena, tra guerre di posizione e infiltrazioni opache: intanto decollavano i termovalorizzatori, prima di Brescia e poi di Milano, che avrebbero dimostrato quanto fosse centrata la soluzione che era stata individuata. Solo anni dopo l’avvio del termovalorizzatore di Acerra si mise fine a quella vicenda e da allora in Campania i rifiuti non sono più tema di amministrazione straordinaria. Quanti danni hanno provocato quegli anni? L’enorme costo complessivo di quel pezzo di storia, non solo in termini economici, rimane un monito per tutti. A Roma oggi compie dieci anni la chiusura della discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa, quella che ha illuso a lungo la capitale che la questione dei rifiuti potesse risolversi da sé, nascondendo all’infinito la propria gravità: anche qui il problema è diventato subito emergenza, tra incendi, cinghiali, miasmi, strade sommerse, cittadini esasperati. Anche stavolta, anni di pseudosoluzioni, di piani poco realistici, di gassificatori mai partiti, di convogli per chissà dove: sempre nel tentativo di dimostrare che per chiudere il ciclo bastasse eliminare le discariche e puntare sul trattamento e sul recupero.  Invece la stessa raccolta differenziata nel frattempo è diminuita. Del resto il recupero energetico è tuttora l’unica vera alternativa alla discarica ed è anche la migliore tecnologia di transizione verso l’economia circolare, perché ha un impatto sull’ambiente minimo, non è in contrasto con la raccolta differenziata (anzi) e contribuisce all’indipendenza energetica e alla decarbonizzazione, oltre che a ridurre la Tari. La tecnologia migliore deve essere realmente applicabile e affidabile: il rischio è alto, esempi passati non mancano. Innovazione non significa progresso di per sé: né è un buon alibi per rimandare. Eppoi c’è la piaga dell’illecito, che prospera soprattutto laddove il ciclo dei rifiuti non si chiude: secondo Legambiente il traffico illegale di rifiuti in Italia è il secondo tra i settori più diffusi delle ecomafie e il primo per numero di arresti. La multiutility capitolina ha ritenuto di presentare una proposta, risultata l’unica: ne capiremo il contenuto, ma intanto è una buona notizia, non scontata. Una gara subito deserta avrebbe aperto un varco a già visti contorcimenti di retroguardia, con illazioni e attacchi strumentali: sappiamo purtroppo quanto costa ogni giorno in più di inazione, che Roma non merita. Una prova generale di maturità superata: meglio così.
Carmine Biello

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