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Sì, la legge elettorale è pasticciata, ma piano con l'“al lupo al lupo”

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Mi pare eccessivo l’accanimento mediatico nei confronti delle liste del Pd. Soprattutto trovo disdicevoli – più che  le polemiche degli esclusi – i rifiuti piccati di candidature non blindate da parte di persone che si credono insostituibili. Un militante dovrebbe sentirsi in dovere di contribuire  al risultato della lista anche se si trova in una posizione defilata, perché  la sua presenza può comunque portare dei voti. Infine, è purtroppo vero che il baricentro delle liste Pd si è spostato a sinistra; si tenga però conto delle candidature di Marco Bentivogli e di Carlo Cottarelli i quali rappresentano un picco difficilmente raggiungibile della cultura riformista. Infine, prima di accusare Letta di aver escluso gli ex renziani, sarebbe equo fare un po’ di confronti con la composizione delle liste del 2018. Anche dopo la scissione di Italia viva la corrente di Base riformista ha continuato ad avere la maggioranza relativa nei gruppi parlamentari. Si vede che la “provvista”  renziana, nelle precedenti elezioni, era stata importante.
Giuliano Cazzola

 

Sottoscrivo.

 


 

Al direttore - La bagarre in corso sulle candidature deriva dal carattere semiautoritario dell’attuale legge elettorale. In tutti i partiti coloro che sono destinati a essere eletti parlamentari sono scelti – tutti o quasi – dai capi-partito e non dagli elettori. Il “rivoluzionario” Conte è andato addirittura dal notaio per difendere il suo diktat (analogo a quello di Letta) a tutela dell’applicazione della legge con i seguenti lati perversi. 1) Se un elettore vota per una lista o una coalizione nella parte plurinominale-proporzionale, il suo voto va automaticamente anche al corrispettivo candidato uninominale-maggioritario, e lo stesso accade nell’altra direzione, dal voto uninominale ai listini plurinominali. Non è ammesso il voto disgiunto. 2) Nei listini la graduatoria dei candidati è bloccata: in ogni collegio per ogni partito, l’eventuale eletto è d’obbligo il n. 1 del listino. Gli altri fanno tappezzeria. Perciò la prevista “alternanza di sesso” nei listini ha solo un effetto immagine. 3) Con le candidature multiple, vale a dire con la stessa persona che può essere candidata in un collegio uninominale e in cinque listini plurinominali (“paracadutata”) si garantisce colui/colei che deve essere eletto indipendentemente dai voti e si creano le piccole cordate con gli eventuali subentri. 4) In sostanza chi controlla le liste in tutta Italia nomina gli eletti. L’unica variabile di cui dispone l’elettore è la variazione della percentuale che otterrà il suo simbolo, se cioè una determinata lista avrà, ad esempio, 10 o 15 eletti, 65 o 80 eletti. I quali tuttavia non sono altro che i candidati piazzati nei collegi uninominali “buoni” e quelli intestati ai listini plurinominali di Camera e Senato. Il Rosatellum è il sistema elettorale più autoritario nella storia della Repubblica e, anche, del Regno. L’elettore può decidere il voto di lista, ma mai il candidato. Questo non è un discorso tecnico ma l’illustrazione di come il 25 settembre si formerà la sovranità popolare. Alla vigilia del voto sarebbe un buon segno se i partiti, almeno quelli che si dichiarano democratici, assumessero pubblicamente l’impegno ad abrogare l’attuale legge a favore di un sistema decente, proporzionale, maggioritario o misto che sia, ma tale che ristabilisca un rapporto autentico tra l’elettore e l’eletto. Solo allora si potrebbe cominciare a parlare di come affrontare l’astensionismo. Un saluto.
Massimo Teodori

 

Caro Teodori, capisco il suo ragionamento. Ma eviterei onestamente di abusare dell’uso della parola “autoritaria”. Le leggi elettorali possono essere pasticciate, sbagliate, disastrose, ma lascerei alla Zagrebelsky Associati la campagna fuffa contro la democrazia minacciata da ogni alito di vento. Al posto suo, ridarei uno sguardo alla favola dell’“a lupo a lupo”. Ricorda? Un caro saluto.


  

Al direttore - Ci sono ragioni politiche generali che inducono, a mio avviso, al voto ai Democratici e progressisti. Con altrettanta convinzione, riscontro che, sul tema della crisi energetica e delle esigenze ambientali del paese, il programma del Pd è disarmante, vecchio e in collisione con la realtà. Sulla principale emergenza del paese – la crisi energetica – il Pd resta attestato su una retorica ripetitiva, stanca e inattuale. Inconsapevole di quanto un ambientalismo fraseologico e fatto di ideologismi si sia trasformato  in un fattore di paralisi, di   conservazione, di  freno alla ripresa e aggravamento della  crisi sociale. Siamo lontani dalle decisioni e dalla drammaticità con cui l’Europa sta correggendo, alla luce della crisi energetica e della guerra, il suo stesso approccio iniziale alla crisi climatica e al Green deal. Mi allarma che, all’unanimità, la direzione del Pd  abbia approvato proposizioni sui temi dell’emergenza energetica in collisione con i programmi del governo Draghi e con la realtà. La Russia ci costringe a diversificazioni degli approvvigionamenti e alla sostituzione di importanti volumi di gas naturale con gas liquido da rigassificare. Scrivere che i rigassificatori sono una “soluzione ponte” è un inganno. Avremo  bisogno dei rigassificatori per tutta la fase della transizione energetica, che durerà decenni. Di più, scrivere che le infrastrutture energetiche vanno realizzate con il “coinvolgimento dei territori e compensazioni per l’impatto ambientale” trasforma un’ovvietà – il dibattito con i territori – in una sollecitazione ai “Nimby” e in  una diseducativa mistificazione: le infrastrutture energetiche sono  di per sé occasioni di promozione dei territori, non sacrifici da compensare. E in alcuni casi (Piombino) motivati da necessità e urgenza, il “coinvolgimento dei territori” non può stravolgersi in veto o in mercimonio. E quale pudico imbarazzo porta a tacere sui termovalorizzatori che sono, in una fase di impoverimento energetico, una risorsa aggiuntiva di produzione, oltre che indispensabili per i rifiuti. Infine, il nucleare. Non si parla di diversificazione del mix energetico italiano che è la condizione del nostro futuro. Si affida, irrealisticamente, il  futuro del mix alle sole fonti rinnovabili, senza minimo accenno alle loro problematicità. Si ribadisce, sul nucleare, un diniego frutto di una discussione mai avvenuta sulle novità di questa tecnologia. Si resta fermi a vecchie pregiudiziali di 35 anni fa, trascurando la realtà delle decisioni dell’Europa in merito. E ci si allontana dalla condotta del governo italiano che ha approvato la proposta della Commissione Ue di inclusione  del nucleare nella Tassonomia e che, con il ministro Cingolani, ha invitato a riflettere sul ricorso al nucleare. Si rende conto la direzione del Pd che questo conformismo all’ambientalismo radicale non è all’altezza della gravità e delle responsabilità di governo di un grande partito sulla crisi energetica? E sulle soluzioni per il futuro? Se questi adagiamenti alla retorica di un ambientalismo stravecchio e paralizzante il Pd li avesse utilizzati nella fase del governo Draghi ne avrebbe provocato lui la caduta. Confesso il mio disagio. 
Umberto Minopoli
Assemblea nazionale del Pd

 

Seguire l’agenda Draghi sull’energia – agenda che prescrive indipendenza dalla Russia, varietà nell’uso delle sorgenti energetiche, neutralità e non ideologia nelle scelta delle fonti di approvvigionamento energetico, è l’unico modo, oggi, per spezzare le caten