(foto Ansa)

No ai professionisti dello sciacallaggio. Urge pensare al futuro del lavoro

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Emirati e Israele manco avevano Rousseau.

Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - Il garantista Salvini dice sulla base di un sospetto che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, insieme con il governo tutto, andrebbe “arrestato” per ciò che avrebbe combinato in Lombardia, dove tra l’altro se non sbaglio governa un presidente di regione di un partito che forse Salvini conosce. Mi chiedo: ma dopo un anno, ancora mojito?

Luca Marroni 

 

C’è di più. Salvini dice contemporaneamente che il governo andrebbe “arrestato” sia perché è stato troppo duro con le regole (aver fatto un tosto lockdown è stato un delitto!) sia perché è stato troppo poco duro (non aver fatto il lockdown in tempo è stato un delitto!). Forse sarebbe il caso che, politicamente parlando, qualcuno arresti i professionisti dello sciacallaggio.


 

Al direttore - Leggo una mia dichiarazione sul Foglio in riferimento alla candidatura della Raggi, ma l’unica dichiarazione che ho espresso al giornalista che mi ha contattato era che non avevo dichiarazioni da fare. Ti chiedo quindi di pubblicare questa mia dichiarazione. Grazie.

Andrea Monda 


 

Al direttore - Nel suo articolo di ieri, che condivido senza riserve, lei ha posto la più cruciale delle questioni: quando pensiamo al futuro del lavoro, a cosa pensiamo? A fabbriche popolate solo di braccia meccaniche che si muovono freneticamente? Ai professionisti delle “stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica) che diventano il cuore pulsante dell’impresa? All’intelligenza artificiale che si sostituisce all’intelligenza umana? A un algoritmo che taglia senza pietà costi e occupati? Sono scenari apocalittici, paventati dai neoluddisti del Terzo millennio per contestare una verità elementare, ossia che ogni rivoluzione tecnologica comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la trasformazione di vecchi lavori, determinandone spesso la marginalità o la scomparsa. Lo sapeva bene il Balzac celebrato da Marx, che nel romanzo “I due poeti”, con cui si apre il ciclo delle “Illusioni perdute” (1837-1843), scrive: “All’epoca in cui comincia questa storia, la macchina di Stanhope e i rulli inchiostratori non erano ancora entrati nelle piccole stamperie di provincia”. Nella tipografia descritta nelle prime pagine del libro sopravvivono perciò “orsi” e “scimmie”, cioè i torcolieri che si muovono tra le tavolette su cui è disteso l’inchiostro e il torchio, e i compositori, che fanno una “ininterrotta ginnastica […] per prendere i caratteri nei centocinquantadue cassettini in cui sono contenuti”. Tutte figure professionali e mansioni destinate a scomparire, poiché le loro funzioni sarebbero state svolte da macchine: il torchio a vapore, il telegrafo, la rotativa e la linotype. Ovviamente, non è qui possibile compilare un elenco dei nuovi mestieri legati alla rivoluzione informatica in corso. Mi limito a citare un esempio emblematico: il “Mechanical Turk” di Amazon, che fa riferimento al celebre turco meccanico creato nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, un finto automa in grado di giocare a scacchi all’interno del quale si celava un nano che ne manovrava le mosse. Si tratta di una piattaforma di “crowdworking” (da “crowd”, folla, e “working”, lavoro), che collega chi offre lavoro con un esercito di consulenti globale, disponibile online giorno e notte, sette giorni su sette. Non è difficile cogliere in questo portale la persistenza di un taylorismo sui generis: ogni ordine inviato online mobilita i dipendenti impiegati nei magazzini (ma oggi affiancati da minuscoli robot) in percorsi lunghi chilometri, con assegnazione di compiti parcellizzati, gestiti e monitorati grazie alla rete e a modelli di business che poggiano su una dura e gerarchica divisione del lavoro, lavoro per giunta di solito mal retribuito. C’è qualche sindacato che si sta impegnando sul serio per affiliare e proteggere questi lavoratori? Senza negare i passi in avanti compiuti negli ultimi anni, ormai non è più procrastinabile la ricerca di una tutela e di una rappresentanza “postnovecentesca”. In questo senso, la regolazione dei lavori – il plurale è d’obbligo – deve cominciare dal mercato, ossia prima che il lavoratore trovi un impiego: infatti il sindacalismo confederale sorse per difendere gli iscritti che volevano trovarsi e mantenere un impiego. Adesso si attiva soprattutto quando il lavoratore si è già trovato il posto, o sta per perderlo, o lo ha perduto, cosicché in paesi come l’Italia non fortuitamente è più forte tra i pensionati che tra gli attivi. Qualcuno obietterà: come, il sindacato deve tornare a tutelare i lavoratori sul mercato del lavoro prima che nel rapporto di lavoro? Come nell’Ottocento? Questo ritorno al passato può sembrare paradossale, ma è logico. Perché il secolo della diversificazione somiglia di più a quello dell’eterogeneità, quando il lavoratore veniva tutelato proprio nei complicati passaggi sul mercato del lavoro, dove era più debole e insicuro. Le prospettive della rivoluzione digitale restano problematiche, sia chiaro. Il campo della cosiddetta economia della conoscenza può essere caratterizzato sia da zone grigie tra lavoro autonomo e nuove forme di asservimento, sia da condizioni che valorizzano la responsabilità, la creatività, la partecipazione della persona che lavora. La seconda prospettiva richiede idee e lotte credibili, lontane dall’estetismo spontaneista della cultura del conflitto. Richiede, inoltre, che le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori non restino frastornate, divise e incerte di fronte a novità che sembrano minacciarle, ma che non basta esorcizzare o maledire. Vedere la storia come un susseguirsi di fregature e di tradimenti, per cui il mondo migliore è sempre quello che non c’è, significa consegnarsi all’irrilevanza politica nel mondo che c’è.

Michele Magno 


 

Al direttore - C’è una considerazione che trovo molto persuasiva, nella sua risposta a Franco Debenedetti sull’assetto delle tlc in Italia (sul Foglio di ieri, ndr). Tim e Open Fiber hanno funzionato bene o male? La cosa più sorprendente del dibattito sulla rete unica, che tanto appassiona le nostre classi dirigenti, è che nessuno pone questo interrogativo nel contesto degli ultimi mesi. La domanda di servizi ha visto una crescita impressionante, a causa del lockdown. Nonostante anni di polemiche sul rame, invocazioni al ritorno del monopolio (ripubblicizzato), elucubrazioni le più varie sul modello Terna, la rete ha retto. Forse è una delle poche cose che hanno davvero retto, in questo nostro paese. E allora con quale logica la politica mette prima nella sua agenda cambiare ciò che funziona, che cercare soluzioni alle tante cose che non funzionano? E non solo la mette prima di tutto il resto, ma trasforma le sorti di aziende quotate, che impiegano migliaia di persone, in una faccenda di bandierine. Anch’io, come lei, da bambino giocavo con i trenini e subisco il fascino della metafora ferroviaria. Ma non ci sono carrozze e vagoni nella competizione fra operatori telefonici. Gli standard tecnologici rilevanti – lo scartamento dei tempi nostri – sono definiti nel campo dell’elettronica di consumo, lontano dall’Italia. E per fortuna.

Alberto Mingardi

Di più su questi argomenti: