I giocatori del Tottenham festeggiano la vittoria contro l'Ajax (foto LaPresse)

Alla fine gli unici che non vogliono uscire dall'Europa sono gli inglesi

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 10 maggio 2019

Al direttore - La Juventus di Cristiano Ronaldo è fuori dalla Champions. Il Real Madrid di Karim Benzema è fuori dalla Champions. Il Barcellona di Messi è fuori dalla Champions. Non sarà mica un segnale? Non sarà mica che anche nel calcio il buon gioco tra campioni viene prima del singolo valore dei campioni?

Fabio Morini

L’unica certezza è che, almeno nel calcio, i soli che sembrano non avere alcuna voglia di uscire dall’Europa sono quelli che ne sono usciti: gli inglesi.

 


 

Al direttore - La formazione messa in piedi per dare un governo al nostro paese è un “aggregato”, che già dal primo giorno lasciava intravedere tentazioni trasformistiche. Non c’è accordo su nulla: non sulla scuola, non sulla previdenza, non sulla sanità, non sulla droga, non sul lavoro, non sulla giustizia, neanche sui temi chiave della riforma delle istituzioni. C’è disgregazione, spettacoli di lacerazione e di degradazione istituzionale: minimo comune denominatore è l’assenza di strategia, il compromesso quotidiano e occasionale. Tocqueville diceva: “Le loro ambizioni e le loro passioni sono talmente concentrate nel mantenimento del potere che solo al pensiero di lasciarlo sono presi da una sorta di orrore che impone loro di sacrificare l’avvenire al presente e il loro onore al ruolo”. A tutto questo si aggiunge, l’assenza di correttezza istituzionale, la vecchia e attuale tendenza ad avere un “ufficio cariche” nel partito che, mette al vertice di aziende di stato ed enti pubblici, persone non per merito ma solo perché meritevoli di essere vicine al partito. Vediamo ogni giorno ministri e sottosegretari inidonei alle cariche che ricoprono: questa inidoneità è considerata irrilevante e non impedisce il prolungarsi della loro presenza al governo, pur nella drammatica evidenza degli insuccessi. La politica fiscale ed economica è basata su una continua rincorsa elettorale del facile consenso e non sull’interesse generale per il paese. Il nostro stato continua a essere una vettura guidata da un conducente spericolato, lungo una strada piena di dossi e tremendamente accidentata. Un politico degli anni 70 e 80, nel giugno del 1984 definì il nostro paese una nuova e strana entità mista: “Un terzo Finlandia, cioè neutralità pulita, un terzo Vaticano cioè visione ecumenica delle grandi questioni nazionali e internazionali e un terzo Tangeri cioè mercato e affarismo spericolato”. Miglior definizione e miglior sintesi non si poteva trovare per definire il vero male della nostra amata Italia. E Prima Repubblica e Terza Repubblica, non sembrano essere così differenti.

Andrea Zirilli

 


 

Al direttore - Adriano Sofri (il Foglio del 9 maggio) ha ragione. Il fascismo non è una novità, è sempre esistito. Ma è sempre esistito anche perché non è mai stato seriamente combattuto, o meglio non è stato seriamente prevenuto, non con le leggi che lasciano il tempo che trovano ma con un costante esercizio non rituale di educazione dell’opinione pubblica alla pratica della memoria a cominciare dalla scuola. L’esempio simbolico di questa ritrosia non è tanto nel complesso della bella architettura piacentiniana, ma in quel monumento celebrativo delle gesta del duce noto come obelisco Mussolini che si staglia nel centro della Capitale privo di alcuna contestualizzazione storica. E’ una vecchia questione quasi sempre liquidata come marginale, ma i monumenti contano, parlano. Mi chiedo cosa possono pensare i giovani Millennial che si recano al Foro italico o vanno all’Olimpico vedendo quel monumento. L’obelisco Mussolini non è il punto ovviamente ma è la prova plastica di quanto poco l’Italia abbia fatto i conti col Ventennio con la responsabilità di tutti, sinistra inclusa. E’ come se oggi nel centro di Berlino vi fosse un monumento con incisa la scritta Adolf Hitler Führer! Cosa penseremmo?

Marco Cecchini

 


 

Al direttore - Salvini conta sulle prossime elezioni europee. Facesse il botto il suo partito, assieme agli altri “sovranisti”, forse si salverebbe dal giudizio di realtà che attende lui, e il suo governo, dietro l’angolo. Dopo le elezioni. E tuttavia occorre dare atto al “nostro”, nel senso che oramai è accreditato a un 37 per cento di gradimento, di essere gran manipolatore e trasformista, più che fascista. Ovvero il suo merito, se così lo vogliamo chiamare, è quello di saper interpretare meglio di altri lo zeitgeist che vige nell’hic et nunc. In Italia ma non solo, e tra la gente. Ha saputo insomma dare voce al sentire, al murmure incazzato della “common people” dei nostri giorni. Un sentire che non ha più niente di “leftish”, ma ama tutto ciò che era della vecchia destra nazionalista. Il prima noialtri! Common people. Certo, e Salvini è soprattutto un “commonista” di successo.

Dino Bartalesi

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