Post verità, percezione e frottole. L'euro e la parola che manca a Di Maio e a Salvini

Le lettere del 30 giugno al direttore del Foglio Claudio Cerasa

Al direttore - Qualcuno aveva chiamato un avvocato?

Giuseppe De Filippi


  

Al direttore - Nonostante le sue forti diseguaglianze distributive e territoriali, non siamo un paese povero. Non è povero un paese in cima alle classifiche mondiali per numero di smartphone, in cui un’auto su dieci è un suv, otto italiani su dieci vivono o vanno in vacanza in case di proprietà, la ricchezza privata è pari a sei-sette volte il Pil. Certo, siamo anche un paese che vanta tristi primati: tassi di produttività e investimenti in ricerca tra i più bassi in Europa; debito pubblico, evasione fiscale, economia sommersa e disoccupazione giovanile abnormi. Ovviamente, l’elenco delle nostre (più o meno) nascoste ricchezze e delle nostre (più o meno) clamorose povertà andrebbe ben altrimenti circostanziato, ma la condizione nazionale viene ormai raccontata nel discorso pubblico con un retorica nemica del sapere e della conoscenza, accreditando le narrazioni fantasiose di un’Italia sull’orlo del baratro. Tuttavia, se la grammatica del populismo e le ossessioni securitarie della Lega hanno fatto breccia nelle classi popolari, la sinistra e lo stesso sindacato confederale non possono chiamarsi fuori. Perché si tratta di un processo che si delinea già alla vigilia della Seconda Repubblica, colpevolmente sottovalutato da una lettura approssimativa delle novità che si andavano aggrumando in quel mutamento del paradigma produttivo che per convenzione viene chiamato postfordismo. Occorre quindi chiedersi se un partito riformista possa rinunciare a un forte radicamento in tutte le forme del lavoro salariato contemporaneo, manuali e intellettuali. Sulla risposta non dovrebbero esserci dubbi. Se infatti non si riescono a rappresentare adeguatamente gli interessi e i bisogni di una realtà che riguarda circa i due terzi degli occupati, non si va da nessuna parte. In fondo, l’Ulivo di Romano Prodi ha vinto quando il loro voto si è spostato in virtù di un’offerta politica che prescindeva dalle arcane alchimie sulla centralità dell’elettore mediano, vale a dire di un immaginario “cittadino-consumatore-moderato”. A questo nodo, che un tempo si chiamava questione sociale, il manifesto di Carlo Calenda dedica considerazioni non banali. Anche per tale motivo è un documento che non merita le reazioni stizzite con cui è stato accolto da alcuni dirigenti del Pd. Se le hanno, essi mettano in campo le loro idee, magari ponendo fine a risse da cortile che disgustano e allontanano gli elettori. La sinistra che conoscevamo è morta? Se ne può sempre fare un’altra. Però fate presto.

Michele Magno

  

I professionisti della paura si battono non giocando con le paure percepite ma mostrando in modo chiaro, forte e gagliardo che chi specula sull’Italia percepita non va assecondato ma va combattuto con tutte le armi che si hanno a disposizione. Le balle restano balle anche se sono vincenti. E fino a che l’agenda della politica verrà dettata più dalla percezione che dalla realtà avremo solo politici che alle cose serie preferiranno le frottole. E un paese governato dalle frottole non è un paese che va lontano.

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