Emmanuel Macron (foto LaPresse)

A Macron anche l'Atac. Modello tedesco: un'idea dopo l'estate

Le lettere al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Già che ci sta Macron potrebbe nazionalizzare Atac?

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Certamente può influire sulla posizione francese sui cantieri Saint-Nazaire il modo in cui spesso è stato esercitato in Italia l’intervento pubblico in economia, come in sostanza scrive sul Foglio la Ciliegia il 28 corrente, anche se, da parte francese, sarebbe un po’, pur rispettando l’“enacrazia”, come la famosa denigrazione del bue nei confronti dell’asino. Ma, se pur non volendo esonerare i francesi da gravi responsabilità – la violazione del “pacta sunt servanda” ai quali Fincantieri era stata sollecitata dagli stessi francesi, il rilanciato colbertismo di Macron, in un’accezione più rozzamente nazionalistica insieme con un protagonismo in politica estera mirato anche a distogliere l’attenzione ai problemi interni – intendiamo passare alle responsabilità italiane, allora ve ne sono pure altre rispetto a quella segnalata dalla Ciliegia. Concorrono la non eccelsa forza dell’attuale governo, come dimostra, tra l’altro, la lunga vicenda delle banche in crisi, la mancanza di una strategia organica dei rapporti tra il “pubblico”, l’economia e, in particolare, le attività imprenditoriali, i comportamenti tenuti nei confronti di acquisizioni dall’estero, le oscillazioni tra impeti dirigistici e affidamento “toto corde” al mercato, le quasi assorbenti problematiche, nei confronti delle istituzioni europee, concernenti i conti pubblici. Insomma, una condizione favorevole a ingenerare nei francesi un pensiero del tipo: “Tanto, questi, alla fin fine, abbozzeranno”. Ma così delineatasi, la vicenda è anche, se non innanzitutto, europea, pur senza disconoscerne i caratteri bilaterali. C’è, comunque, ancora tempo per recuperare e riscattarsi per come saranno ora, dopo la nazionalizzazione, gestiti i rapporti negoziali e versus l’Unione. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

 


 

Al direttore - La pecorella smarrita della legge elettorale continua a vagare nei pascoli dei premi di lista o di coalizione, delle clausole di accesso o di esclusione, dei nominati dall’alto o degli unti dal basso. Secondo una pubblicistica a dir poco partigiana, gli italiani avrebbero la rappresentanza proporzionale nel loro codice genetico. Niente di più falso. Al contrario, nel Dna dei nostri avi paterni (quelli materni non godevano del diritto di voto) è impresso il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali, che ha caratterizzato le elezioni tenutesi dal 1861 al 1911. La scena muta drasticamente con la società di massa, quando i fattori organizzativi e ideologici prendono il sopravvento su quei fattori personali (lignaggio, censo, istruzione) che garantivano l’elezione dei notabili più in vista. Giovanni Giolitti accettò il sistema proporzionale temendo l’avanzata dei socialisti e dei popolari, che poteva tagliare l’erba sotto i piedi ai candidati liberali nei collegi uninominali. Prima annunciato insieme a un allargamento del suffragio, poi applicato per la prima volta nelle elezioni del 1919, la sua adozione aveva dunque un evidente intento difensivo. Poi venne il fascismo. Quasi un secolo dopo, la tragedia rischia di ripetersi sotto forma di farsa, come diceva un tale (Marx) che se ne intendeva. Pensata inizialmente per scongiurare un dicastero pentastellato, ci troveremo con il presidente Mattarella costretto ad affidate a Giggino Di Maio l’incarico di formare il governo. E allora, vedrete, la Lega di Matteo Salvini non si farà pregare due volte pur di poter annusare il profumo del potere. Un capolavoro politico, quello dei togliattiani a loro insaputa, secondo cui il Parlamento deve essere lo specchio reale del paese. Dalle mie parti, si chiama eterogenesi dei fini.

Michele Magno

A proposito di legge elettorale. Bisognerebbe dire la verità. Ovvero che l’unico sistema che oggi può garantire un’emersione chiara e definita di tutte le leadership e di tutte le proposte elettorali è quello che dopo settembre Berlusconi proverà a rilanciare: il sistema tedesco. No alleanze preventive, no pasticci, no casini. Conviene provarci.

 


 

Al direttore - Ricapitolando: il Mediterraneo è in subbuglio agitato da una crisi libica voluta da tutti, in primis dalla Francia, ma tranne che dall’Italia (ah il caro vecchio saggio Berlusconi...); avevamo dunque una posizione di vantaggio, avevamo interessi veri in Libia, dovevamo andare lì (cosa che Renzi voleva fare ma poi si è tirato indietro, Gentiloni manco ci ha provato) prendere il comando della situazione e rendersi protagonisti nel Mediterraneo. Ci è riuscito Macron, invece, e Trump ha capito che può fidarsi di lui e non dell’indecisa Italia (senza governo e senza politica). Toh, è nato l’asse Francia-Usa per il Mediterraneo e nel frattempo è (ri)nato l’asse Francia-Germania per l’Europa. Fantastico. Presi a schiaffi da Macron, che intanto ci sfila pure i cantieri. E abbandonati legittimamente da Trump, che continuiamo a sbertucciare. Bene così. Sipario. E’ tempo di un nuovo governo. En marche.

Domenico Mazzone

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