Sebastian Vettel esulta dopo la vittoria in Ungheria (foto LaPresse)

Perché la storia dello sterzo di Vettel ci spiega come l'Italia può diventare una Ferrari

Claudio Cerasa

Occupazione, cantieri navali, pensioni. Come la Rossa di Maranello, il nostro paese è una macchina che ha bisogno solo di qualche ritocco e non di una rivoluzione di anno in anno

Forse può sembrare bizzarro, ma nel giorno dei dati positivi sull’occupazione, nel giorno dei dati record sul lavoro femminile, nel giorno della nuova trattativa su Fincantieri, il modo migliore per fotografare bene l’Italia di oggi è concentrarsi sugli ultimi ventisei giri del Gran Premio di Ungheria, durante i quali Sebastian Vettel, formidabile pilota della Ferrari, ha sintetizzato quello che è il nostro paese meglio di qualsiasi istogramma dell’Istat.

 

Domenica scorsa, come sapete, Sebastian Vettel ha vinto alla grande il Gran Premio di Ungheria grazie a un particolare mix di fattori: una macchina risanata, dopo anni di sacrifici, e con un motore molto veloce; una squadra solida e compatta al totale e sincero servizio della sua testa di serie; un pilota infine che riesce a governare la sua vettura, e a sfruttare le sue potenzialità, nonostante uno sterzo rotto, che per mezzo Gran Premio lo ha costretto a tenere il volante girato verso sinistra per andare dritto sul rettilineo. L’Italia di oggi non va a una media di 184 chilometri orari, come la Ferrari di Vettel, ma si trova in un momento in cui deve scegliere se prendere una decisione simile. Ovvero: come comportarsi di fronte a una macchina risanata, dopo anni di sacrifici, che comincia ad andare molto veloce nonostante una serie di evidenti difetti all’interno del suo abitacolo. Domenica scorsa, nonostante il grave difetto nell’abitacolo, la Ferrari ha scelto di fare squadra, ha chiesto al suo secondo pilota di non sorpassare il primo pilota nonostante fosse più veloce di lui (e di fargli da scudo) e ha deciso di gestire la gara, senza intervenire sullo sterzo, ma semplicemente lasciando andare la macchina.

 

Il punto, per uscire fuori dalla metafora e ritornare sul terreno della politica, è proprio questo: cosa significa fare squadra è evidente, specie nel Pd, cosa significa lasciare andare la macchina un po’ meno. E qui torniamo ai temi di oggi. L’occupazione. Fincantieri. Le riforme per il futuro. I dati di questi giorni ci dicono qualcosa di chiaro. Ci dicono che, per quanto riguarda l’ordinario, un governo è efficace quando si muove per alleggerire una macchina e non per appesantirla. E ci dicono che, per quanto riguarda lo straordinario, un governo è efficace non se presenta una riforma a settimana, ma solo se ne presenta una quando è strettamente necessario.

 

I dati sull’occupazione (il tasso di disoccupazione a giugno è sceso ai livelli del 2012, all’11,1 per cento, meno 0,2 rispetto a maggio, mentre il tasso di occupazione delle donne è al 48,8 per cento, valore più alto dall’inizio delle serie storiche, ovvero dal 1977) ci dicono che da questo punto di vista il Jobs Act è una riforma straordinaria per almeno due ragioni: un intervento secco, una tantum, che ha reso più flessibile il mercato del lavoro e che allo stesso tempo ha incoraggiato nuove assunzioni grazie a un alleggerimento delle tasse sui contratti (in molti non lo ricordano ma dal 2014 a oggi gli occupati totali sono cresciuti di 821 mila unità, con circa due terzi dei nuovi contratti a tempo indeterminato). Una macchina più snella è una macchina che va più veloce – e siamo sicuri che la macchina andrebbe ancora più veloce se fosse ulteriormente alleggerita con uno sgravio per le assunzioni dei giovani.

 

Ma soprattutto una macchina riformata in modo strutturale deve essere ritoccata solo per piccoli aggiustamenti e non rivoluzionata di anno in anno come chiede di fare oggi, sul terreno delle pensioni, un fronte trasversale che va da Damiano a Sacconi e che chiede di bloccare l’adeguamento  dell’età di pensionamento alle aspettative di vita (la riforma Fornero è del 2012). Lo schema Vettel vale quando si parla di lavoro e di pensioni. Ma vale anche per altro. Vale quando si parla di eccellenze che non riescono a essere efficienti, e dunque attrattive, perché soffocate da un pesante, improduttivo e spesso clientelare interventismo dello stato (sospettiamo che se in Fincantieri ci fosse un Marchionne, come quello della Ferrari, difficilmente Macron direbbe di no al controllo dell’Italia sui cantieri francesi). Ma vale anche quando si parla di un modo particolare di fare squadra: di fronte a un problema ci si attrezza per risolverlo e non si perde tempo per trovare un capro espiatorio. Suggeriamo all’ad di Fincantieri, al segretario della Cgil, ai segretari di partito, al governo interno di passare una giornata a Maranello e di capire perché lo sterzo di Vettel può dirci qualcosa su come l’Italia, senza retorica, può diventare davvero una Ferrari.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.