Il caso "cat person"

Mariarosa Mancuso

Era fiction, non materiale da dibattito. Il virale del New Yorker e l’antidoto: Portlandia

Nei momenti difficili servono certezze. Per esempio, le serie che mai deludono, stagione dopo stagione. Di più: preparano ad affrontare situazioni che una volta esistevano solo negli sketch satirici – senza bisogno di chiarirne il carattere scherzoso con schiere di faccine sorridenti – e ora sono dappertutto. Prima di vedere “Portlandia”, non immaginavamo che qualcuno al ristorante potesse chiedere se il pollo aveva zampettato a terra, nella sua breve vita, prima di diventare coq au vin. E se era stato felice, e se aveva avuto altri polletti a tenergli compagnia, magari filosofeggiando sulla vita dopo la morte (come pensano i fanatici che amano tutti gli animali tranne gli uomini). Al pollo con la biografia nel menu siamo arrivati, il prossimo passo sarà il neonato gender-neutral: sceglierà lui da grande a quale sesso vorrà appartenere.

  

Spinge a rifugiarsi in “Portlandia” (scritta e recitata da Fred Armisen e Carrie Brownstein, Jonathan Krisel ha diretto quasi tutti gli episodi) il caso “Cat Person”. Per chi sta ritirato nella sua caverna, rifiutandosi perfino di vedere le ombre sulla parete: si intitola così il racconto di un’autrice esordiente – Kristen Roupenian, trentasei anni – uscito sul New Yorker e diventato virale, oltre che materia da dibattito.

 

Lo si legge, e non ci si crede. E’ la storia di un appuntamento-con-scopata andato a male (come capita ai vivi, anche quando non si faceva conoscenza sui social). Lui un po’ più grande di lei, trentaquattro anni contro venti (ma anche qui non si vede il dramma). Prima la chat poi l’incontro (siamo sempre nell’ordine naturale delle cose, o preferite l’assalto senza un po’ di conversazione davanti a una birra?). Anche un bel po’ di “vorrei e non vorrei”.

  

Lei teme di non piacergli, insiste, si fa invitare nella casa dove lui vive con due gatti, e poi scopre che bacia da schifo – per questo gli antichi saggi sapevano che il bacio era meglio provarlo in macchina o fuori dal portone, per consentire la ritirata.

  

Nulla di fatto, né come trama né come qualità letteraria. Ma un editore ha subito fatto firmare a Kristen Roupenian un contratto milionario (sette cifre, riporta il New York Times). Nessuno, ma proprio nessuno, ha spiegato ai favorevoli, ai contrari, a quelli che stanno in mezzo e dicono “il problema è un altro”, che il racconto stava nella sezione “fiction”, non nella “Posta del cuore”. Era firmato da una scrittrice, o da un’aspirante tale, o da “Cuore infranto 82”.

 

Consenso collettivo e scandali veri

Mentre i sostenitori della letteratura indistinguibile dall’esperienza conquistano altro spazio – qui poi abbiamo il consenso, la femminea fragilità, lui che “aveva la pancetta ma non me ne sono accorta prima che si spogliasse” – noi ci consoliamo guardando “Portlandia”. Sono su Netflix le prime sette stagioni (era ora, prima serviva l’arte di arrangiarsi); l’ottava e purtroppo ultima andrà in onda il prossimo 18 gennaio su Ifc. Per certificare che l’intelligenza non sta solo sul New Yorker – e “Cat Person” fa rivoltare nella tomba gli altri scrittori che diedero scandalo, per esempio Shirley Jackson con “La lotteria”, anno 1948.

  

Armisen & Brownstein sfoderano bravura e modernità di linguaggio. Con tocchi che rasentano “Black Mirror” (la quarta stagione sarà su Netflix dal 29 dicembre, bye bye tristezza di Capodanno). Strepitoso – e un po’ Monty Python – il convegno di “Portlandia” dedicato alle banalità che scattano automatiche: da “non ci sono più le mezze stagioni” a “una volta qui era tutta campagna”. Manca la categoria letteraria-esistenziale, ma se ne può trovare un bel campionario nei commenti a “Cat Person”.

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