Romanzi familiari

Mariarosa Mancuso

“This Is Us” fa piangere quando bisogna piangere, senza lacrime davanti allo schermo

“Verklempt” scrive James Poniewozik sul New York Times rispolverando una parola yiddish. Vuol dire “sopraffatto dall’emozione” e ben si addice a “This Is Us” di Dan Vogelman (produzione Nbc, la rete tv che ha strappato Megyn Kelly alla Fox, niente di esclusivo come Hbo; in Italia va in onda su Fox Life dallo scorso novembre). “Verklempt” ma non “schmaltz”, per usare un’altra parola yiddish che in origine sta per “grasso d’arrosto”, e a Hollywood significa sentimentalismo spinto (noi diciamo “melassa”). Tutte parole arrivate negli Stati Uniti con gli ebrei che fuggivano dalla Germania nazista e una volta in salvo inventarono l’industria del cinema come noi la conosciamo. Le altre parole utili per raccontare la serie le ha inventate un altro ebreo che invece scappò a Londra e si chiamava Sigmund Freud: “Romanzo familiare”.   



“This Is Us” fa piangere, ma le lacrime non sono tutte uguali. Ci sono quelle estorte alla spettatore con i mezzucci (l’ennesimo genitore che arriva tardi all’ennesimo saggio scolastico, ormai quando la bimba si infila il tutù o il bimbo si veste da Re Magio temiamo la sfiga). E ci sono le lacrime piante volentieri – con la mente almeno, non è da tutti singhiozzare davanti alla tv: a spingerle sono l’intelligenza dello sceneggiatore e la bravura dei registi (Glenn Ficarra & John Requa di “Babbo bastardo”, l’originale del 2003, hanno diretto i primi tre episodi).

Per “romanzo familiare” Sigmund Freud intende le storie che precedono la nostra nascita e ci strutturano. Frasi come “tutto suo nonno, era pazzo anche lui”, che fanno da cornice a quel che combiniamo o non combiniamo nella vita per diventare chi siamo: colpi di scena, delusioni, illusioni, rancori, vendette, capricci, amori, matrimoni, divorzi, equivoci e malintesi. “Attraversiamo la vita come se tutti attorno a noi avessero torto”, suggerisce Philip Roth in “Pastorale americana” (il film che Ewan Gregor ha tratto dal romanzo non ne tiene conto, motivo in più per evitarlo).

Una coppia aspetta tre gemelli, le acque si rompono al compleanno di papà. Corsa all’ospedale, dove il ginecologo ha avuto un attacco di appendicite e mentre urlava per il dolore ha passato le consegne a un collega quasi in pensione. Una specie di Dottor House dai modi garbati, anche quando deve dire cose tremende. Cartelli con scritte in bianco e nero, nello stile adottato da Woody Allen per i titoli di testa dei suoi film, ricordano che negli Stati Uniti 18 milioni di persone condividono la stessa data di nascita. Entrano quindi gli altri personaggi, tutti sulla trentina e tutti in magico equilibrio tra “la so, la so, questa la so per averla vista cento volte” e “però è scritta tanto bene, e forse non la sapevo proprio così”.

Un giovanotto nero e rampante ritrova il padre che lo aveva abbandonato neonato davanti alla caserma dei pompieri (“non era riuscito a immaginare nulla di più originale”, commenta il figliolo, con cinismo e sapienza da sceneggiatore che maneggia bene i cliché). Una grassa ragazza cerca di dimagrire, e al gruppo di supporto trova un meraviglioso “amico di ciccia” e poi corteggiatore. Un muscoloso attore dopo una piazzata davanti alle telecamere lascia la sitcom “Il tato”: non sopporta più di cullare neonati a torso nudo. Queste erano le regole d’ingaggio, e il produttore minaccia “I’ll Nagasaki you” (sì, proprio come la bomba atomica; una volta si diceva “non lavorerai più in questa città”). Alla fine del primo episodio, una romanzesca rivelazione. Di tante che seguiranno, ben cadenzate per riprendersi tra un singhiozzo e l’altro.

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