Matteo Salvini (foto LaPresse)

La versione di Cassese

L'atteggiamento gladiatorio del ministro dell'Interno Salvini

Lo stato è davvero un coperchio buono per tutte le possibili pentole in cui ribolla il problema del potere?

Professor Cassese, Salvini che imbraccia un mitra. Vuol ricordarci che lo stato, il monopolista della forza legittima, ritorna protagonista?

L’atteggiamento gladiatorio del ministro dell’Interno sembra voler ricordare, insieme con la (dichiarata) chiusura dei porti, il braccio di ferro sugli immigrati, le dichiarazioni sovraniste, la legge sulla legittima difesa, l’enfasi sulla sicurezza, che lo stato c’è. Mentre molti ne pronosticavano la morte o la crisi, il ministro dell’Interno, con altri nel mondo, riaffermano la sovranità dello stato. 

 

Ma che cosa è lo stato?

Accontentiamoci per ora di ricordare che lo stato, nella sua forma contemporanea, avrebbe come data di nascita il 1648, data della pace di Westfalia, che pose termine alla guerra dei Trent’anni, e che esso avrebbe il monopolio del diritto e della forza legittima. Max Weber, in “Politik als Beruf”, ha scritto che lo stato ha il “Monopol legitimer physischer Gewaltsamkeit für sich […] beansprucht”.

 

Ma Salvini non è solo.

C’è anche il presidente americano, che fa rivivere il bilateralismo nei rapporti internazionali, bilateralismo che rafforza l’unilateralità dello stato, mentre il multilateralismo creava coalizioni, pur sempre di stati, che però costituiva condizionamenti reciproci multipli e costringeva a mettersi d’accordo in patti. C’è anche chi sostiene che lo stato è un “attivo creatore di valore”, “la culla in cui vengono nutriti i mercati, e poi il genitore che li aiuta a servire il bene comune” (così Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae all’economia globale, Roma-Bari, Laterza, 2018, p. 284 e p. 287), per cui gli sviluppi tecnologici sono stati messi in moto dal settore pubblico.

  

Ma lo stato è stato protagonista in passato?

Protagonista, ma non assoluto. Un solo esempio, tratto dai diari di Antonio Segni. Il 19 marzo 1960, Segni ministro degli Affari esteri vede il cardinale Tardini e scrive: “Mi chiede assoluta fermezza sulla scuola; sussidi alla scuola privata; non asili statali; caso mai, se non annullare, ridurre le assegnazioni alla scuola materna statale. Ma soprattutto contro ogni governo che si regga sull’astensione anche dei soli socialisti; non si parla dell’astensione comunista. In tal caso (di astensione) l’Em. Tardini mi dice chiaramente che il partito si scinderà”. Due giorni dopo, Segni scrive due lettere, una a Tardini, un’altra al cardinale Siri, in cui si legge “scongiuro V. E. di evitare che si divida la Dc”. Mentre Gronchi, presidente della Repubblica, “deplora l’ingerenza della chiesa”, gli perviene un appunto non firmato proveniente dal Pontefice nel quale “si chiarisce che la scomunica che colpisce coloro che hanno contatti con i comunisti colpisce anche il caso del governo fatto con l’appoggio dei socialisti se questi restano legati ai comunisti”. Il 22 luglio, Segni scrive che “il cardinale Siri mi fa dire dal suo segretario che devo restare agli Esteri”. Nel 1964, l’11 luglio, Segni, ora presidente della Repubblica, scrive che “Sua Santità […] esclude che il centro-sinistra sia la formula migliore; è una formula che si accetta per necessità” (S. Mura (a cura di), Antonio Segni. Diario (1956-1964), Bologna, il Mulino, 2012, p. 170. 174-175, 179, 186, 261). Stato protagonista o stato co-protagonista?

 

Ma la fonte di legittimazione degli stati è stata pur sempre interna.

Fino a un certo punto, anche in questo caso. Molte forze politiche interne sono state fortemente legate a movimenti internazionali (pensi soltanto al movimento socialista e a quello comunista). E sempre più si internazionalizzano i protagonisti della politica interna, come dimostrato dalla alleanza europea sovranista promossa dal ministro dell’Interno italiano.

 

Ma è dai popoli nazionali che vengono eletti i rappresentanti degli stati.

Ma gli stati debbono poi essere riconosciuti dall’alto: l’articolo 4 della Carta delle Nazioni Unite dispone che, accanto agli stati “membri originari”, “possono diventare membri delle Nazioni Unite gli altri stati amanti della pace che accettino gli obblighi del presente statuto e che, a giudizio dell’Organizzazione, siano capaci di adempiere tali obblighi e disposti a farlo”. La fonte del potere statale è dunque duplice, proviene dal basso, dal popolo, ma anche dall’alto, dal riconoscimento della comunità internazionale. E’ principalmente grazie a quest’ultimo riconoscimento che gli stati possono adoperare poteri nazionali in funzione sovranazionale.

 

Ritorniamo alla domanda: ma che cosa è lo stato?

La sua identità non è chiara. Un autore americano nel 1931 ha censito 145 diversi significati della parola. Tant’è vero che essa è solitamente seguita da un aggettivo qualificativo: assoluto, totalitario, autoritario, costituzionale, monoclasse, pluriclasse, democratico, fascista, socialista. Aggettivi qualificativi a loro volta incerti. Ad esempio, quello fascista fu per alcuni uno stato autoritario, per altri anche uno stato totalitario.

 

Ma lo stato si impone alla società, e principalmente all’economia.

Sì, così si evoca lo stato guardiano di notte, lo stato interventista, lo stato pianificatore, a cui si affianca lo stato imprenditore. Ma se lo stato cerca di guidare l’economia, l’economia e i mercati condizionano lo stato: basta considerare il peso delle agenzie di “rating”, da cui dipendono le sorti del debito pubblico degli stati.

 

Questo “ridimensionamento” dello stato non corrisponde alla tradizione, specialmente quella giuridica.

I giuristi sono stati grandi creatori di miti. E’ vero che “il diritto nel suo insieme (legislazione, più scienza, più formazione universitaria, più amministrazione pubblica) è stato il collante di processi storici di portata enorme, relativi sia alla riformulazione dei vecchi stati che alla loro democratizzazione mediante l’amalgama borghese” – come ha scritto Pierangelo Schiera, che ha dedicato la sua vita di studioso alle ricerche sullo stato – in un Colloquio su Stato, Diritto e Costituzione, con F. Pedrini, pubblicato nella rivista Lo Stato (2018, n. 10, p. 287), ma è vero anche che la cultura giuridica ha poi generalizzato, attribuendo la qualità di stato alla città antica, agli imperi, e a tutte le altre forme di potere pubblico. Invece, non tutta la storia mondiale è storia di stati. Schiera ha efficacemente scritto che si tratta “non di un coperchio buono per tutte le possibili pentole in cui ribolla il problema del potere, bensì di un coperchio adatto a una pentola particolare” (p. 275). E in precedenza aveva scritto che lo stato “è fenomeno storico [che] si riferisce a una stagione precisa e assai limitata della storia dell’umanità” (Stato, 1987), ora in P. Schiera, Lo Stato moderno, origini e degenerazioni, Bologna, Clueb, 2004, p. 108).

  

Quindi, la “polis” greca, la “civitas” romana, il comune medievale, gli imperi non furono forme di stato.

Sì: è errata la “riduzione dello ‘stato’ a mera sigla giuridica, esportabile a piacimento in tutte le parti del mondo, a prescindere da storia, tradizione, costumi e, soprattutto bisogni e segni consolidati delle popolazioni interessate” (P. Schiera, p. 280).

 

Ma, al di là della sigla, certi caratteri ritornano: uno è quello della unità, dello stato come struttura permanente della nazione.

Quale unità? Quello italiano è stato unitario? Dal punto di vista politico, non dal punto di vista economico. E anche dal punto di vista dell’ordine giuridico, vi sono evidenti dislivelli di statalità tra nord e sud.

 

Rimangono gli altri elementi tradizionali, territorio, popolazione, sovranità.

Il primo, non il secondo e il terzo. La nazione non è più formata soltanto da cittadini: tra l’8 e il 10 per cento degli stati moderni è composto di non cittadini. Quanto alla sovranità (un’aspirazione dei costruttori dello stato moderno, diretta in molti casi ad arginare l’influenza religiosa – questa è un’osservazione degli storici tedeschi e di Schiera) si può ancora dire che sia potere senza limite, né verso l’alto, né verso il basso, dopo che gli stati hanno essi stessi riconosciuto diritti inalienabili ai cittadini e accettato di condividere tanti poteri con altri stati e con poteri superiori o globali?

 

A quale conclusione si arriva lungo questa strada? Che lo stato non è il migliore modo di governare? Che lo stato non è necessario? Che vi sarà un diritto senza stato (come suggeriva uno scrittore francese qualche anno fa)? Oppure che occorre andare oltre lo stato o che occorre reinventare lo stato?

Queste domande aprono un intero nuovo capitolo, quello della crisi dello stato, una crisi segnalata a partire dall’inizio del Novecento, al quale dovremo dedicare un’apposita riflessione.

Di più su questi argomenti: