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Il dibattito sulle élite è confuso, non si capisce neppure a che cosa si riferisca

La nuova classe politica dà ascolto ai più tradizionali sentimenti e soddisfa le richieste delle corporazioni. Salvini critica la classe dirigente, ma ora c'è lui nella stanza dei bottoni

Professor Sabino Cassese, le élite dovrebbero mettersi in gioco. E’ in corso una rivoluzione sovranista, popolare, una rivolta contro le élite, la competenza, la tecnocrazia. Molti commentatori stanno discutendo su questo conflitto.

Dibattito oltremodo confuso, nel quale si intrecciano riferimenti all’Italia e agli Stati Uniti, problemi relativi alla classe politica e alle diseguaglianze di reddito, conoscenze incerte della realtà e ignoranza dei classici, temi relativi alla classe politica in senso stretto e alle aristocrazie. (segue nell’inserto I)

 

Perché un giudizio tanto critico?

Per diversi motivi. Comincio dal più lontano, con un paragone con la precisione di analisi delle critiche alle classi dirigenti dell’epoca, svolte da Giacomo Leopardi nel famoso “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” (1824) e da Francesco De Sanctis nei suoi articoli scritti nel 1877-1878 su “Il diritto”. Loro sì, erano precisi: lamentavano l’assenza di una classe dirigente all’altezza delle sue responsabilità civili e politiche. Le pare che gli interventi attuali siano all’altezza di quelli di Leopardi e di De Sanctis? C’è, poi, un difetto di impianto, concettuale: non appare chiaro a che cosa ci si riferisce con il termine élite.

 

Mi pare chiaro: coloro che sono al vertice.

Ne è sicuro? Le ricordo che l’autore del concetto, Gaetano Mosca, rifiutava l’uso della parola élite, che fu introdotta da Vilfredo Pareto, un ventennio dopo le analisi di Mosca. Quest’ultimo nutrì per tutta la sua vita un risentimento nei confronti di Pareto, per avergli “rubato” l’idea e aver usato un termine per indicarla che è inesatto, perché induce la convinzione che coloro che sono al potere siano gli elementi più intellettualmente e moralmente elevati.

 

Mentre Mosca parlava di…

Classe politica. Leggiamo il fulminante inizio dello scritto “Sulla teorica dei governi e sul governo rappresentativo” (Loescher, Torino, 1884): “In tutte le società regolarmente costituite, nelle quali si ha ciò che si dice governo… noi troviamo costantissimo un… fatto: che i governanti, ossia coloro che hanno nelle mani ed esercitano i pubblici poteri, sono sempre una minoranza, e che al di sotto di questi, vi è una classe numerosa di persone, le quali non partecipano realmente al governo, non fanno che subirlo; esse si possono chiamare i governati”. Più sinteticamente, negli “Elementi di scienza politica”, del 1896, Mosca scrive: “In tutte le società… esistono due classi di persone: quella dei governanti e quella dei governati”.

 

Perché queste precisazioni filologiche e concettuali?

Per spiegare un primo punto: che la diagnosi è sbagliata e che è errato l’uso dei concetti di élite e di classe politica. Se si usano in modo corretto parole e concetti, dobbiamo dire che nel 2018 si sono affacciate nuove forze politiche che hanno espresso una loro classe politica. E’ questa la classe politica ora governante. Ma questo è solo il dato strutturale. Va poi considerato il dato funzionale. Anche qui vorrei fondarmi sull’analisi dei dati empirici: legga la legge di Bilancio. Legga il decreto legge sul reddito di cittadinanza e su quota cento. Vedrà che sono apoteosi del corporativismo.

Dunque, una nuova élite o classe politica, che tuttavia dà ascolto ai più tradizionali sentimenti e soddisfa le richieste di vaste categorie di settore, quelle che chiamiamo corporazioni. Insomma, la diagnosi è sbagliata.

 

Ma c’è anche la polemica contro banchieri, consiglieri di stato, manager pubblici, “manine” varie.

Qui entriamo in un campo diverso. Bisogna distinguere: metà di questi vertici pubblici e semipubblici sono di scelta governativa. Quindi, al nostro quarto di ministro dell’Interno (anche lui si lamenta delle élite) bisogna ricordare: “Imputet sibi”. Per l’altra metà, scelta secondo i criteri del merito, in modo aperto e competitivo, bisogna ricordare che anche i più accaniti rivoluzionari non riescono a modificare le strutture dello stato, che hanno bisogno di continuità per erogare i servizi pubblici alla collettività (ricordi le osservazioni di Tocqueville nell’“Ancien régime et la révolution”). Si crea una tensione tra classe politica e quella che chiamerei, con una forzatura concettuale, classe amministrativa. Di questa tensione la più lucida prova sta in una illuminante frase del vicepresidente del Consiglio Di Maio, relativa al Ragioniere generale dello stato. Cito a memoria: l’ho visto solo qualche volta e non so ancora se mi posso fidare. Insomma, il pilota è al volante di una macchina che gli è nuova, deve saper leggere i dati sul cruscotto, conoscere i comandi, imparare quelli su cui fare affidamento, impadronirsi dei modi di guida.

 

Ma c’è ancora qualche altra cosa: la critica a questa che lei ha chiamato classe amministrativa, che è considerata un “moderno patriziato”.

Ritorniamo a Gaetano Mosca. La sua teoria della classe politica si articolava in tre parti. La prima riguardava la formazione e riguardava la chiusura o l’apertura. Da questo punto di vista, la nostra classe politica si è quasi interamente rinnovata. La domanda ulteriore è se si rinnovi periodicamente quella che abbiamo chiamato classe amministrativa (alti funzionari, giudici, banchieri). Ora, se si esamina l’accesso e si considerano le uscite, si può dire – con le riserve di carattere metodologico che le dirò più avanti – che la porta di entrata è normalmente un concorso, che non potrebbe essere ad accesso discriminato (salvo le cosiddette riserve di posti) perché violerebbe il principio di eguaglianza. Quanto alla porta di uscita, questa è sempre aperta: saprebbe indicarmi quanti “grand commis” restino in carica più di un decennio in Italia?

 

La seconda parte?

L’organizzazione: Mosca distingueva classi politiche autocratiche, ereditarie, nominate dall’alto e classi politiche nelle quali il potere è trasmesso dal basso verso l’alto. Ora, in un sistema elettivo da un lato (quello strettamente politico) e meritocratico dall’altro (quello amministrativo), il potere è legittimato rispettivamente dalla scelta popolare e dalla competenza.

 

Il terzo capitolo?

Per Mosca era la “formula politica”, cioè il modo in cui la classe politica giustifica il proprio potere richiamandosi a valori supremi, fondati sui sentimenti o le credenze di un’epoca generalmente accettate dal popolo. Un esempio, la sovranità popolare. Le pare che ora manchi questo tipo di legittimazione?

 

Una sua valutazione conclusiva, sul fondo della questione?

Comincio da quello che non sappiamo. Prima di avventurarci su questo terreno, lungo la strada aperta da Mosca e Pareto, proseguita da Roberto Michels e da Charles Wright Mills, dovremmo saper qualcosa di più, per politici e amministratori, tutti quelli che sono al “sommet de l’Etat” – come dicono i francesi –: come sono selezionati, e formati, quanto è aperta l’entrata, quale è il tasso di ricambio, quale la legittimazione, quanto corrisponde la retorica della legittimazione alla concreta azione d governo. Poi, con tutte la cautele del caso, per l’assenza di ricerche in profondità, mi pare si possa dire che non vi siano vistosi e diffusi casi di ereditarietà delle cariche, che vi sia un grado sufficiente di competizione tra corpi, che non vi siano durate eccessive nelle cariche, che vi sia un sufficiente tasso di ricambio.

 

Un’ultima domanda: che pensa del ministro dell’Interno, che afferma “per me, il grande nemico è la cosiddetta sinistra, che negli ultimi anni ha difeso soltanto le élite, i poteri forti, banche e finanza. L’obiettivo è far uscire la sinistra dalla stanza dei bottoni”.

Non è lui stesso, ora, nella stanza dei bottoni? Non è lui stesso classe dirigente?

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