Il governo di recente ha assunto 57.322 unità di personale docente. Continua il vecchio metodo: gli insegnanti invece delle scuole. Foto LaPresse

Dovremmo dare priorità al tema della scuola o a quello degli insegnanti? Parla il prof. Sabino Cassese

Il grado di istruzione della società e il problema dei precari. Ma l’Italia non si stanca mai di essere un paese arretrato

Professor Cassese, nella riunione del Consiglio dei ministri dell’8 agosto 2018, la quattordicesima del governo Conte, su proposta dei ministri della Funzione pubblica, dell’Economia e delle Finanze e dell’Istruzione, è stata autorizzata l’assunzione su posti effettivamente vacanti e disponibili, per l’anno scolastico 2018-2019, di 57.322 unità di personale docente, di cui 43.980 docenti su posto comune, 13.342 docenti su posto di sostegno, 46 unità di personale educativo, 212 dirigenti scolastici, 838 unità di personale Ata.   

Continua il vecchio metodo: gli insegnanti invece delle scuole. Ma partiamo da più lontano: perché il problema generale della scuola, il problema sociale più importante del paese, così rilevante, è tanto assente dalla politica? Un milione circa di addetti. Una presenza quotidiana nelle famiglie con persone in età scolare. Eppure il tema sembra scivolato fuori dell’agenda politica. Non è presente se non episodicamente nello spazio pubblico, dopo il periodo della grande contrapposizione scuola pubblica-scuola privata, ovvero scuola secolarizzata-scuola confessionale. Il tema scotta.

 

C’è qualcuno che pensa che la politica, invece di interessarsi dei problemi della gente, “fabbrica” propri temi e li lancia, abbindolando il pubblico. 

Costruzione forse un po’ arzigogolata. Vediamo prima perché il tema scuola è assente dall’agenda, dalle priorità. Possibili cause: assenza di idee, scarsa maturazione di un patrimonio di conoscenze e di riflessioni. Quindi scarsa padronanza intellettuale. Oppure: timore di rimetterci un dito, nell’affrontare un argomento spinoso. Oppure: timore dei “potenti” sindacati della scuola. Oppure consapevolezza che ci vogliono risorse e dell’assenza di mezzi finanziari.

 

E il mondo stesso della scuola? Perché non fa sentire la sua voce? Dopo tutto, insegnano alla società di domani. Perché non spiegare qualcosa anche a quella di oggi? 

Non bisogna sottovalutare due aspetti. In primo luogo, il mondo della scuola è frustrato. In secondo luogo, si vede sempre più messo da parte. È frustrato per due motivi, molto bene spiegati da Giovanni Floris in un bel libro di analisi sociologica della scuola italiana (“Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia”, Milano, Solferino, 2018). Perché vede sempre meno riconosciuto il suo posto nella società, si sente delegittimato, come si dice. E perché ha sempre l’impressione di correre per rimanere nello stesso posto. In altre parole, per l’assenza di progressione economica verticale, pur in presenza di una domanda sociale crescente, anche di ore di lavoro. Si sente, poi, messo da parte, sente di interessare poco: i migranti, un fenomeno tanto più modesto, occupano tanto più l’attenzione di politici, televisione, giornali.

 

Passiamo dalla diagnosi alla prognosi. 

Prima ancora, vediamo quali sono i temi. Al centro, deve esserci il tema della scuola o quello degli insegnanti? Dobbiamo preoccuparci del grado di istruzione della società o dobbiamo partire dalla sistemazione dei precari e dalla loro distribuzione sul territorio? Secondo: occorre partire dal sistema scolastico o dalle scuole? La mia risposta è chiara. Come scrisse Massimo Severo Giannini, “in principio sono le funzioni”. Quindi, al primo posto c’è il problema dell’alfabetizzazione e della formazione, non solo delle persone in età scolare, ma anche degli adulti, considerato il fenomeno degli analfabeti di ritorno.

Poi, il sistema scolastico deve venire dopo le scuole, perché alle scuole va riconosciuta autonomia. Mi autociterò: “Plaidoyer” per un’autentica autonomia delle scuole”, era intitolato un mio scritto, pubblicato in Il Foro Italiano (1990, n. 3, V, pp. 147-153). Era la relazione per la Conferenza nazionale sulla scuola, organizzata dal ministero della Pubblica istruzione (Roma, 30 gennaio-3 febbraio 1990). Quindi, prima, innanzitutto, la scuola con le due componenti indicate nel bel libro di Floris che ho citato, una comunità di discenti e l’autorità – sì, l’autorità – dell’insegnante. Nelle singole scuole, i presidi: sono circa 7 mila con più di 8 mila istituti scolastici, e quindi molte reggenze, e con retribuzione inferiore a quella degli altri dirigenti statali. Poi viene il sistema scolastico, che si costruisce dal basso. Alla fine viene l’amministrazione scolastica, che è in funzione della scuola, non viceversa, come è stato a lungo.

 

Questi erano i temi. Ma quali sono i problemi? 

Sono dettati dalle questioni strutturali. Nel prossimo decennio la popolazione scolastica diminuirà di circa un milione di persone, specialmente al sud. Ciò comporta più di 50 mila cattedre in meno. Dall’altra parte, c’è un compito enorme e nuovo, che chiamerò, per comodità, dei richiami scolastici, di ri-scolarizzare una parte della popolazione. Poi, c’è da affrontare con analisi dettagliate la questione del prodotto finale, in termini quantitativi e in termini qualitativi. Nel primo senso, perché l’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di laureati in rapporto alla popolazione e perché abbiamo pochissimi stranieri laureati e scarsa integrazione scolastica dei giovani nati all’estero o da genitori immigrati. In termini qualitativi, perché il livello di preparazione è basso.

 

Di questo non ci si è interessati?

Se vuol sapere quali sono state le priorità, legga il libro di Alessandro Barbano, “Troppi diritti. L’Italia tradita dalle libertà” (Mondadori, 2018) alle pagine 96-99, dove troverà un resoconto della “buona scuola”. Poi, nel febbraio 2018, nuovo contratto, dopo 8 anni, lunghissimo (178 pagine), un terzo degli aumenti a pioggia, dimenticando rispetto del merito e cosiddetto organico dell’autonomia. Seguito dalla stabilizzazione di circa centomila persone, che seguiva le 132 mila del 2015, con graduatorie regionali, senza posti predeterminati. Mi lasci terminare con una calzante citazione da Vitaliano Brancati, “Ritorno alla censura” (Laterza, 1952, p. 51): “L’Italia non si stanca mai di essere un Paese arretrato. Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio”.

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