Alexander Solgenitsin (via Wikimedia)

“Quella volta che Solgenitsin mi disse: l'Europa ha la malattia del vuoto”

De Villiers accompagnò lo scrittore russo in Vandea a omaggiare le vittime della Rivoluzione francese. Un resoconto a dieci anni dalla morte sul Figaro

Lo scrittore russo Alexander Solgenitsin è morto il 3 agosto 2008, dieci anni fa. Il 25 settembre 1993, per il bicentenario della rivolta della Vandea, tenne un discorso a Lucs-sur-Boulogne, in Francia. Tredicimila persone andarono a sentirlo e ad applaudirlo. Tra il pubblico immenso, all’inaugurazione di un memoriale sugli eccidi, non c’erano ministri o autorità politiche nazionali. Perché beatificare quei 170 mila martiri vandeani implicava il ripudio della Rivoluzione francese, un totem dell’Esagono.

  

Solgenitsin fu accompagnato da Philippe De Villiers, aristocratico ed ex ministro, che allora aveva messo in un angolo il titolo viscontile e le convinzioni monarchiche per farsi eleggere all’Assemblée nationale tra i ranghi giscardiani, per poi darsi a una lunga e prolifica carriera di saggista. “Dopo averlo conosciuto dall’esterno, come celebrità globale, ho avuto la possibilità di conoscerlo attraverso una relazione personale, familiare: è diventato un amico intimo dopo il suo soggiorno a casa mia. Per quattro giorni abbiamo parlato molto – o piuttosto l’ho ascoltato molto. Più tardi, con il mio amico Dominique Souchet, l’iniziatore del viaggio, e Nikita Struve, il suo editore, gli abbiamo fatto visita. Voleva che lo aiutassimo a costruire una biblioteca a Tambov, il centro della memoria sovietica. Con il deputato Souchet, siamo stati gli unici due personaggi francesi presenti al suo funerale al monastero Donskoy a Mosca, il 6 agosto 2008. Delle mie lunghe conversazioni con Alexander Isaevich ho il ricordo di un uomo di alta cultura, un poeta dal volto marcato, che portava su di sé la sofferenza dei reprobi ma anche e soprattutto un visionario che ha capito i movimenti del mondo. Era un maestro di pensiero”.

  

Un maestro tenace: “Undici anni di deportazione, diciassette anni di esilio, nulla ha avuto la meglio sul suo coraggio di ferro. Quindi, per la storia, rimane il vincitore metafisico del comunismo. Era un visionario dei tempi a venire. Continuava a ripetere: ‘Si può perdere la propria sovranità preservando la propria identità. Ma se perdi entrambi, sei morto’. Mi insegnò a rilevare i gulag del nostro tempo, il nuovo ‘angelismo sterminatore’, a resistere alla temporalità chiusa delle ideologie, a indovinare come il crimine potesse profilarsi dietro l’utopia. Aveva capito che la religione dei diritti umani sarebbe arrivata a sciogliere le società, le nazioni, le civiltà, per l’effetto deleterio del principio di non discriminazione. Siamo lì. Nel nome dei diritti umani, le minoranze hanno diritti garantiti – l’halal, la memoria dell’Altro – e installano una contro-società”.

 

Nel 1993 Solgenitsin fu l’eroe della Vandea. “Quello che mi ricordo è il suo famoso discorso di Lucs in cui disse che la Rivoluzione russa era figlia della Rivoluzione francese. E’ lo stesso cromosoma, la stessa parentela. I bolscevichi sono i diretti discendenti dei giacobini. Martellò che il genocidio della Vandea era il riferimento, la matrice del terrore comunista. Solgenitsin visse nel tempo di Giovanni Paolo II, che parlava di nazioni, radici cristiane, famiglie. Noi di Francesco, il Papa del ‘campo dei santi’ e della parusia migratrice dell’Europa. Una mattina, camminando in campagna vicino a Saint-Laurent-sur-Sevre, Solgenitsin si fermò e mormorò, prendendomi per le spalle: ‘In Europa, l’abisso è profondo. Ha la malattia del vuoto. Tutte le tue élite hanno perso il senso di valori più alti. Il sistema occidentale passa al suo stato finale di spossatezza spirituale: legalismo senz’anima e abolizione della vita interiore’. Ciò che l’occidente sta vivendo oggi è peggio della decadenza. Questo è sia un implosione e un’invasione, con la doppia sostituzione graduale e indolore di una popolazione e di un civiltà”.

 

De Villiers e Solgenitsin hanno avuto in comune una certa ammirazione per Putin. “Sì, una certa ammirazione. Prima di tutto per il suo lavoro di restauro civico, culturale e spirituale che gli è valso il riconoscimento del popolo russo. Ma anche per la sua visione del mondo: Mosca è ora al centro di un sistema policentrico con Cina e India, di fronte al blocco unipolare dell’evanescente occidente. Sono diventato un lettore bulimico di Solgenitsin. Ma sono un lettore frustrato, perché, ahimè, l’ho letto in francese. Nikita Struve, sua editrice e traduttrice, mi ha detto così spesso: ‘Ah, maestro di stile! Il colore delle frasi! Il respiro lirico!’. Il lavoro, sebbene così ben tradotto, perde i suoi aromi. Come un mazzo di fiori secchi che ha smesso di esalare i suoi profumi. Oggi, se lo incontrassi di nuovo, gli parlerei dei due globalismi – edonismo e islamismo – che si affrontano e si nutrono a vicenda. Uno è vuoto e l’altro lo riempie”.

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