Il Foglio Arte

Sonia Delaunay, un'ucraina a Parigi con la gioia di far cantare i colori

Furio Zara

Le prime esperienze da pittrice, i pomeriggi passati a ragionare di stelle con Gauguin e Van Gogh e poi teatro, moda, astrattismo e ritagli di stoffe

Nel tempo lontanissimo ed eterno dell’adolescenza una ragazza passeggia lungo la Neva, incorniciata nello skyline maestoso di San Pietroburgo, con l’ombrellino di pizzo bianco e i capelli a crocchia raccolti sulla nuca. E’ l’ora di nessuno che galleggia oltre il confine del tramonto, quando la ragazza osserva l’acqua della Neva – che un attimo prima luccicava di rosa – declinare verso un definitivo grigio piombo. Nella promessa dello sguardo colorato, grava il peso di un destino che andrà a compiersi. In anticipo di un secolo sull’immaginario della Pixar, nasce un tempo nuovo, il tempo di Nostra Signora della Luce, Sonia Delaunay. La classe, l’energia creativa. Lo stile, l’intelligenza. La volontà di infondere bellezza al quotidiano, per trasformare il mondo in un posto più felice dove vivere.


Sonia Ilinitchna nata Stern, poi – quando viene adottata dallo zio – diventata Terk, ucraina, figlia di ricchi possidenti del distretto di Gradiesck, a 17 anni sfidando il volere dei genitori si trasferisce in Germania, a Karlshrue; poi subito Parigi, l’Academie de la Palette a Montparnasse, le prime esperienze da pittrice, i pomeriggi passati a ragionare di stelle con Gauguin e Van Gogh, i matrimoni, due, il primo – brevissimo, mai consumato – con il critico tedesco omosessuale Wilheim Uhde, lo scopritore di Picasso, poi quello con l’amore di tutta una vita, il padre del Cubismo Robert Delaunay, da cui prenderà il cognome e al quale sopravviverà quasi quarant’anni. Scriverà nei suoi diari: “Io e Robert ci siamo amati nell’arte, come altre coppie si sono unite nella fede, nel crimine, dell’alcool, nell’ambizione politica”. Siamo nella Parigi del secolo breve che comincia sgommando, mentre nell’aria risuonano gli ultimi echi della Belle Époque. Il poeta Guillaume Apollinaire parlerà di cubismo orfico, ovvero “un piacere estetico puro, una costruzione che colpisce i sensi”. Prospettiva: lo sguardo trasognato, come dentro un sogno dei Teletubbies. Idea chiave: la simultaneità. Persone e cose si perdono nel ciclo avvolgente dei colori, perché – questo è il suo contemporaneo Marc Chagall – “il colore è prima di tutto vibrazione”. E’ una musica silenziosa, quella che agita le opere di Sonia. L’aveva già intuito Plutarco: “La poesia è una pittura che parla, e la pittura è una poesia che tace”


Decorazione, teatro, moda, danza, musica, astrattismo, forme geometriche: i territori in cui si muove, leggiadra come quel giorno, a passeggiare lungo la Neva. E tutto è colore, fin dall’inizio. Fin da quando crea una coperta per la culla del figlio, Charles, composta da un collage geometrico di ritagli di stoffa: storia di trame e colori, patchwork in stile cubista che custodisce il ritmo veloce del secolo nuovo. Con Sonia nasce un linguaggio che rivoluziona il gusto, una grammatica colorata che galleggia tra la razionalità del cubismo e l’astrazione lirica, tra il regno pesante degli uomini e quello ineffabile degli angeli: se ci stai attento, puoi sentire i colori cantare.

 

Nel 1964 è la prima donna a far parte di una retrospettiva del Louvre. Ritmi circolari, dischi simultanei, vortici luminosi. Un’ipotetica insegna appesa all’ingresso del suo atelier di Madrid potrebbe recitare così: ogni vestito è un dipinto. Tutta la moda che verrà – nei secoli dei secoli – è già custodita nel seme di ogni sua fantasia. Nel 1975 le viene assegnata la Legione d’Onore, che porterà sempre appuntata, all’altezza del cuore fino alla fine dei suoi anni. Ci ha lasciato sciarpe, tessuti, foulard per vestire donne moderne, dinamiche, autonome. Mosaici, tappeti, carte da gioco, incisioni, libri illustrati, manifesti pubblicitari, cuscini, paralumi, persino automobili, una Matra 530 dalle mezzelune colorate sul cofano, decorata quando era già ottuagenaria. Nel giardino incantato di Sonia il colore infrange le figure con dissonanze e disarmonie, catturando la musica del visibile ne diventa l’abito. E’ origine e destino, “soggetto e forma”; il colore è la pelle del mondo. I Pooh in Chi fermerà la musica l’avrebbero gratificata cantando: “Per te che mi cambi colore addosso”. Sonia Delaunay se ne va a 94 anni dopo aver colorato i nostri piccoli mondi in bianco e nero. E consola immaginarla mentre si congeda come Dorothy nel Mago di Oz, battendo per tre volte uno contro l’altro i tacchi delle scarpe d’argento. Nel regno di Cromo, la regina è lei.

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