“Pedofilo colonialista”. La polizia morale all'attacco di Gauguin

Mauro Zanon

Polemiche per la mostra del pittore alla National Gallery, la prima che affronta la questione dei rapporti con le giovani polinesiane raffigurate nei suoi ritratti. E il New York Times si domanda: “È giunto il tempo di non esporre più le sue opere?”

Parigi. “Is it time Gauguin got canceled?”, si è chiesto lunedì il New York Times in un articolo a firma di Farah Nayeri, firma delle pagine di cultura del quotidiano newyorchese. La Nayeri lavora a Londra, dove è in corso un’esposizione che sta suscitando un dibattito molto aspro nelle capitali dell’arte mondiali e soprattutto a Parigi di cui l’artista è originario: “Gauguin Portraits”, alla National Gallery.

 

È la prima dedicata alla ritrattistica del pittore francese (Parigi, 1848 – Hiva Oa, 1903), ed è la prima che affronta la questione dei suoi rapporti con le giovani polinesiane raffigurate nelle sue opere. Gauguin sbarcò per la prima volta a Tahiti nel 1891, all’epoca in cui era una colonia francese, trattenendosi per due anni. Poi vi tornò nel 1897, per abbandonarla nel 1901, quando si trasferì a Hiva Oa, fino alla fine dei suoi giorni. La giornalista del Nyt, lasciando intendere in maniera fin troppo chiara che sarebbe meglio non esporre più nessuna opera del pittore parigino in ragione delle sue relazioni con 13enni e 14enni polinesiane, offre la sua tribuna a Christopher Riopelle, co-curatore dell’esposizione londinese, il quale dice che non si possono più chiudere gli occhi sul modo in cui gli artisti si comportavano.

 

“Gauguin era una persona molto complicata, impulsiva e insensibile”, sostiene Riopelle, dicendosi  “deluso” del fatto che la sua necessità di creare opere d’arte “lo abbia portato a fare del male alle persone, o ad abusare di loro in una maniera così pessima”. Interrogata dal Nyt, Ashley Remer, cofondatrice del museo online girlmuseum.org, dedicato alle rappresentazioni delle giovani ragazze nella storia e nella cultura, va molto più lontano: “Era un pedofilo arrogante, sopravvalutato e altezzoso”.

 

La stessa, al quotidiano newyorchese, sostiene che le tele di Gauguin, se fossero state delle fotografie, non sarebbero mai state accettate. Nei commenti accanto ai ritratti esposti alla National Gallery, i curatori hanno scritto queste parole: “Nessuno ha dubbi sul fatto che Gauguin abbia tratto vantaggio dalla sua posizione di occidentale privilegiato per approfittare di tutte le libertà sessuali di cui disponeva”. L’unico ad avere una posizione anti revisionista, è Vicente Todolì, oggi direttore artistico di Pirelli HangarBicocca a Milano, che nel 2010 curò una mostra su Gauguin per la Tate Modern: “Si può totalmente aborrire e detestare la persona, ma la sua opera è la sua opera: una volta che un artista crea qualcosa, non appartiene più all’artista, appartiene al mondo”.

 

L’articolo del Nyt pone l’eterno problema della separazione tra il lavoro di un’artista e la sua vita, che in Francia, in questi giorni,  è in cima all’attualità con il caso Polanski. Ma si inserisce anche in un fenomeno che si sta espandendo nel mondo liberal americano e inizia a radicarsi anche in Francia: la “decolonizzazione delle arti”, un tentativo da parte dei discendenti degli ex colonizzati di riscrivere la storia dal loro punto di vista, tanto da chiedere la messa al bando o la cancellazione di ogni richiamo alle grandi figure della storia e dell’arte.  È successo con Cristoforo Colombo, quel “criminale di guerra” in odore di “colonialismo”, la cui statua è stata abbattuta a Los Angeles nel 2018. Potrebbe succedere anche alle opere di quel “pedofilo colonialista”, così lo chiamano i suoi nemici, di Gauguin. 

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