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Il figlio

Case di famiglia, luoghi di una memoria intima e quotidiana

Giacomo Giossi

La testimonianza di Charlotte Gainsbourg ricorda come passare nelle stanze legate al proprio passato abbia un effetto lenitivo rispetto ai dolori della vita

Spesso negli anni Charlotte Gainsbourg ha ribadito il desiderio di trasformare la storica dimora paterna in rue de Verneuil a Parigi in un museo aperto al pubblico, ma ha dovuto più volte rimangiarsi la parola. Attraversare quelle stanze legate alla propria infanzia aveva per lei, ha raccontato più volte, un effetto lenitivo rispetto ai dolori della vita. Un luogo troppo radicalmente connesso con lei e la sua storia famigliare che l’accesso al pubblico avrebbe potuto infrangere per sempre. Poi, pochi mesi prima della morte della madre, Jane Birkin, Charlotte Gainsbourg è riuscita nel suo intento: aprire la casa che oggi è visitabile (maisongainsbourg.fr/en) in un doppio percorso uno più museale e uno guidato all’interno dell’abitazione. A un certo punto ci si libera della propria infanzia o forse sarebbe più corretto dire che ci si arrende alla propria infanzia. La memoria è una forma mentale che si alimenta degli oggetti, dei luoghi, ma poi va per la propria strada con la necessità di elaborare visioni che con la realtà non è necessario che abbiano troppe attinenze. Alla fine meglio un museo che un trasloco che lascia stanze vuote e pareti straziate dai segni di un tempo ormai irriconoscibile. 

Ho abitato per lungo tempo in case che avevano al loro interno una memoria intima e quotidiana, quasi una formazione per me che avrei poi passato un periodo non breve in quella che si potrebbe definire casa di famiglia, la casa dei miei nonni dove mio padre era cresciuto. La prima casa in cui ottenne seppure in coabitazione con la sorella, una stanza (quasi) tutta per sé. Prima di allora sono stato accolto, questo è il termine esatto, in una vecchia casa milanese, un tempo abitata da un’anziana professoressa comunista le cui tracce erano ancora ben visibili da una biblioteca straordinaria: la Milano dell’Università Statale di Antonio Banfi, della Resistenza e della liberazione. Tutto condensato in una libreria a muro, di quelle con le ante in legno e una sottile rete di fili di metallo al posto dei vetri. Una sintesi di funzionalismo e marxismo. Poi mi ritrovai custode di una piccola casa di via Sarpi, un’amica, Maddalena, aveva cambiato vita con non poche incertezze e l’ospitalità mi era stata offerta in cambio di mantenerle le radici: vestiti, libri universitari, stoviglie, vecchie e comodissime poltrone. Vi vivevo come un intruso, come un abusivo autorizzato. Una valigia per la lavanderia e una valigia con gli abiti puliti, più un computer erano i miei oggetti personali. Sempre pronto per una fuga che non mi fu mai richiesta. Mi ritrovai così in un tempo altro, perché non mio come il luogo che custodivo e in un tempo passato perché ormai Maddalena stava da un’altra parte con altri vestiti, mobili e stoviglie e quella custodia perdeva giorno dopo giorno ogni suo motivo d’essere. In un certo senso vissi nella sua intimità per poi ritrovarci entrambi come estranei: lei viva, io in un posto impolverato dalla memoria. 

A cinque anni dalla morte di mio padre, quella che fu la prima casa della mia famiglia è stata svuotata e liberata (come si usa dire). Non saprei dire se ci ritornerei, ci ho vissuto ricercando quella pace e quelle voci (alcune inseguite nella memoria, altre immaginate dai racconti dei parenti ancora in vita) che erano un passato comune. Mi sono appisolato nel letto che fu di mio padre (davvero piccolo) tentando di riprendermi un po’ di quella quiete che forse da ragazzino poteva aver avuto. Ho rivisto mia nonna, Anna, cucinare, mio nonno brontolare. Le file di soldatini che io e mio cugino disponevamo lungo le pareti del salotto. Ho sempre diffidato delle case e dell’appiglio che offrono ai ricordi. Dire ora che quella casa mi manca come mio padre sarebbe esagerato. Dire che quella casa insieme a mio padre appartiene a un tempo finito è invece già più vicino al vero, e anche al cuore che mi resta.

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