“Going and Coming” di Norman Rockwell

Storie d'autore dalle pagine settimanali del Figlio

Dieci scrittori per dieci racconti pubblicati nell'inserto curato da Annalena Benini

Il Figlio ha compiuto da poco tre anni. Tre anni di storie, racconti, libri, tormenti, lettere, disegni. Tutte le settimane, una dopo l’altra, Annalena Benini ha raccolto le confessioni sui figli di alcuni scrittori che hanno raccontato non solo che cos’è l’infanzia, ma come cambia, come sparisce, e che cosa porta con sé nella vita adulta e in quella di genitori. 

Poi ha aperto il suo archivio a ha selezionato alcune di queste storie. 

Qui trovate le prime dieci. Le altre le potete trovare nelle prossime pagine.

Storie d’autore da leggere e ritagliare.

“Cosa sarei se fossi madre?” di Antonella Lattanzi

Ho già trentasette anni, gli dicevo, è il momento: vuoi forse essere il nonno di tuo figlio? Viaggio in fondo a un’ossessione, tra una ragnatela di paranoie e (poche) cose vere

 

Non lo immagino mai neonato, bambino, adolescente. Lo immagino solo e sempre dentro di me, nella mia pancia. Tondo, roseo e sorridente, tutto il contrario di com’è davvero un feto. Mi guardo intorno per le strade e vedo donne e uomini con i figli in braccio. Cosa sarei, se fossi madre? Mi cambierebbe il corpo, l’anima, il cervello? Ce la farei a prendermi cura di qualcuno, io che a stento, ma da sempre, mi prendo cura di me? Ce la farei, mi dico, ce la fanno tutti.

 

Ce la fanno tutti. Non è mai il momento giusto: fallo e basta. E’ bellissimo, non puoi capire quanto è bello. E’ come un innamoramento che non finisce mai. Mi dicono così, quelli che i figli li hanno, e ormai ho quasi trentotto anni e di amici con figli ne ho a bizzeffe. Quasi tutti. Non avrei mai immaginato di essere l’ultima. Non avrei mai immaginato di chiedermi, in motorino dietro il mio compagno, tornando a casa una sera sotto un cielo d’autunno, se l’avremo mai, un figlio.

 

Volevo un figlio anche quando avevo quindici anni. Ho sempre detto che volevo quattro figli. Non ricordo quando ho smesso. So solo che un mio ex fidanzato un giorno mi ha chiesto: quando li fate questi quattro figli? E io mi sono ricordata che lo dicevo sempre, che lo pensavo: io adoro avere una sorella, come sarebbe bello averne tre? Bellissimo. Lo darò ai miei figli. Come sono belle le case piene di gente? Bellissime. Lo darò a me, e ai miei figli. Com’è bello pensare che quella piccola gente che è lì, in macchina con te, per andare per esempio al mare, l’hai fatta proprio tu, e senza di te non esisterebbe? E devi comprare la macchina più grande perché tra me, il mio compagno, i quattro figli e il cane – voglio pure il cane – non ci state in una macchina normale. Com’è bella questa gita tutti insieme? Bellissima. Cantiamo pure in coro le canzoni giuste.

 

Queste fantasie. Fantasie da adolescente che ancora mi porto dietro – perché non ho ancora un figlio? E voi, quando lo fate un figlio? Io mi giro, guardo il mio compagno, lo indico: è lui che non vuole. Lui sbuffa imbarazzato, dice: non è vero, lo faremo. Abbi pazienza.

 

Qualche mese fa l’avevo convinto che era il momento giusto. Nel nostro ristorante preferito, mangiavamo fregola ai crostacei, bevevamo vino, tutto intorno la sala era addobbata di drappi rossi, pesanti, claustrofobici, resa ancor più piccola da arredi in finto oro pacchiani e giganteschi, sedie imbottite rosso scuro, camerieri pallidissimi. Eravamo lì, e per l’ennesima volta gli dicevo, ho trentasette anni, sai benissimo che potremmo cominciare a provare ad avere un figlio e non riuscirci per mesi, per anni. Non vedi quanti dei nostri amici ci sono riusciti solo dopo tanto tempo? Snocciolavo nomi e date come una calcolatrice, ricordavo tutto alla perfezione, io che non ricordo mai niente. Vuoi essere il nonno di tuo figlio? E descrivevo scene terribili di padri coi capelli bianchi o senza capelli, incisi di rughe, troppo vecchi, incapaci di tenere in braccio il proprio bambino appena nato, morti così presto che non lo avevano nemmeno visto andare alle elementari. Mentivo, inventavo, ma per me era tutto vero: mi vedevo perdere l’attimo in cui ancora puoi decidere di avere un bambino o non averlo; mi vedevo girarmi indietro e dirmi: non hai deciso di non averlo, semplicemente l’hai lasciato succedere. Anche andasse bene, dicevo al mio compagno, anche lo avessimo ora, non ci sarà mai una foto di quelle della nostra infanzia, una foto di tuo figlio piccolissimo e tu giovanissimo e ingenuo che lo stringi tra le braccia.

 

Insomma. Il solito discorso. Di colpo il mio compagno sollevò gli occhi su di me, disse: va bene. E’ un uomo di pochissime parole, ogni volta che si inizia a parlare lui dice: stai parlando da due ore. Ogni volta che vuoi affrontare un discorso lui dice: ne abbiamo già parlato, oppure: sai già che cosa penso, oppure: sono paranoie tue, stai calma.

 

E’ vero che al novanta per cento sono paranoie mie. Ho una bella ragnatela catastrofica di paranoie nel cervello, e c’è un mostro senza faccia seduto da una parte che intesse la ragnatela mentre canta, intesse, intesse, e ogni gesto del mostro è una nuova paranoia, e ogni parola della sua canzone è un pensiero fisso che mi viene in testa. E’ vero. Però il paranoico vero sa che, su cento suoi pensieri, novanta sono paranoie e dieci sono cose vere. Ma il paranoico non può sapere quale sia la paranoia e quale la verità, per cui l’ansia del non sapere cresce. Io finisco col chiedere al mio compagno: Questa è paranoia o realtà? Lui quasi sempre risponde: Paranoia. A me per la maggior parte questa sua rassicurazione basta, e passo alla prossima paranoia, tanto non finiscono mai, mai, come le storie d’amore di Luca Carboni che ascoltavo da bambina.

 

Quindi. Lui mi dice: va bene. Paranoia: cosa vorrà dire quel va bene? Il mostro senza faccia mi confeziona immediato il film di un uomo costretto a fare un figlio pur non volendo, e quindi quel figlio non voluto è un figlio triste per sempre e… Ma se invece fosse vero? Se lo volesse, un figlio?

 

Antonella Lattanzi, scrittrice e sceneggiatrice, nata a Bari nel 1979. Il suo primo romanzo è “crittrice e sceneggiatrice, nata a Bari nel 1979. Il suo primo romanzo è “Devozione” (Einaudi Stile Libero, 2010), l’ultimo uscito è “Una storia nera” (Mondadori, 2017), tradotto in molti paesi. ” (Mondadori, 2017), tradotto in molti paesi. 

“Alla ricerca di un futuro” di Anilda Ibrahimi

Era la fine degli anni Ottanta, in Albania. Le madri del regime non erano il mio modello, io volevo la libertà. Ho avuto tre figli, proprio come mia madre, e sono libera

  

Non ho tanta scelta, dicevo dondolandomi su una vecchia sedia azzurra tutta sgangherata. Cosa potrei inventarmi per il futuro? Le cortigiane alla Balzac non esistono più, e io non amo i falsi, le cose vanno fatte per bene. Eravamo sul terrazzo di casa mia, di fronte al mare, lui quasi assente si faceva vivo con qualche leggera onda. Una scena che si ripeteva tutte le sere o quasi. Avevamo solo quindici anni. La danzatrice alla Mata Hari, così potresti fare anche la spia? Mi suggeriva lui. Eh no, ora è tutto diverso rispondevo io, vedi come si combatte la Guerra fredda? La moglie di qualcuno tranquillo, continuava lui, che ti lasci fare le tue avventure, come Emma o come Anna. Sì certo, rispondevo io, hai visto la fine tranquilla che hanno avuto loro?

 

Cercavamo disperatamente di intravedere il nostro futuro, anzi il mio. Lui del suo non parlava mai. Nel mio invece mancava la cosa più importante. La maternità. Anche il lavoro, ma per questo ci stavamo impegnando. Era la fine degli anni Ottanta, in pieno regime comunista. La donna era la forza della rivoluzione oppure madre eroina. Quelle mettevano al mondo almeno cinque figli. Non era il caso mio, mai avuto aspirazioni così grandi.

 

Mia madre aveva partorito tre figli, purtroppo non era diventata eroina. Faceva l’insegnante, curava noi e la casa, sfornava tanti biscotti e teneva corsi di scrittura, arrivava il sabato comunista e lei lavorava nei campi, leggeva tanti romanzi, quante cose faceva. Io non volevo diventare come lei. Ma come mia madre desideravo leggere, leggere sempre.

 

Mettere al mondo dei figli era fuori discussione. In quell’epoca andavo in giro recitando Gibran o meglio strillando con quella retorica che è presente ancora oggi: io sarei stata madre in un altro modo, madre dell’umanità perché poi che importanza ha chi li partorisce i figli, se appartengono al futuro di tutti noi?

 

Di fronte a casa mia c’era un grande asilo. Osservavo il pullman delle operaie che arrivava alle cinque per prelevarli, le loro stridule risate, i baci umidi. Erano tutte grasse, tanto da sembrare incinte sempre. Le gravidanze avevano dato al loro corpo la forma di certi barili dove tenevamo le olive per l’inverno. Io ero magra con il punto vita e il seno grande e il sedere tondo già a quindici anni, come avrei potuto mettermi contro madre natura per distruggere quello che lei generosamente mi aveva regalato?

 

Ho capito molto tardi il motivo del mio rifiuto: a parte quelle donne, io non avevo un altro modello da seguire. La madre doveva essere così in una dittatura, anzi la donna in generale non doveva essere bella perché avrebbe distratto l’uomo nuovo dalla costruzione del mondo nuovo. Non avevo nessuna strada da percorrere, quella era l’unica.

 

Sono diventata madre molto giovane. Non so ancora se è stata una scelta mia. Forse quella di rimanere incinta così giovane no, ma di diventare madre sì. Nel momento in cui mi hanno messo in braccio mia figlia coperta di grumi di sangue, l’ho allontanata con un secco movimento che diceva “non adesso”. A pochi minuti dal parto ero occupata a cercare la pancera dentro la borsa. Quella stretta che impedisce alla pancia di rimanere per sempre. Avevo sentito dire così e non volevo rischiare.

 

Ho allattato mia figlia. L’odore del latte materno che mi ricordava le donne sformate della mia infanzia non mi faceva più senso. Ho avuto altri figli, tre in tutto. Proprio come mia madre. Dopo ogni parto, prima di guardarli in faccia, cercavo la pancera.

 

Non l’ho mai raccontato al mio amico del liceo, lui ha scelto di andarsene per sempre, il mondo nuovo dopo la fine del comunismo non l’aveva entusiasmato. Non so cosa avrebbe pensato di me nel vedermi indaffarata tra pannolini e pappe, con questi figli che non sono mai riuscita a svezzare prima dei tre anni.

 

A volte penso a lui. Alle altre vite che non saranno mai le mie. A quelle che dovevano assomigliare alle eroine dei nostri romanzi. Salire su un treno, un treno qualunque e andarsene senza voltare la testa. Attraversare i nodi, saltare dall’altra parte del baratro senza mai chiedersi se sarebbe stato meglio cadere dentro l’abisso o trovarsi in salvo.

 

Ehi, amico, non l’avresti mai immaginato lo so, sono madre di tre figli, io, ti rendi conto? E sono ancora così vanitosa, hai presente Becky Sharp? Thackeray sarebbe fiero di me. Anche frivola, quello sempre anche se ora non sono più così fatalista da considerarlo un fardello che mi è stato dato alla nascita, ma una mia conquista da donna libera.

 

Perché noi siamo tante cose. Siamo il giorno che ci avvolge e ci denuda con la sua spietata luce e siamo la notte che ci rende senza legami e pieni di segreti, mentre il vento fa dondolare una vecchia e sgangherata sedia azzurra di fronte al mare, in qualche angolo remoto della terra.

 

Anilda Ibrahimi, nata a Valona nel 1972, nel 1994 ha lasciato l’Albania: dal ’97 vive in Italia. Il suo romanzo più recente è “Il tuo nome è una promessa” (Einaudi, 2017).

“Le cose che sa” di Pierluigi Battista

Dalla madre che non c’è più alla figlia. Una città, un colore: le vie misteriose di un mondo che rivive

  

Cara Annalena, io nemmeno sapevo che i colori corrispondessero a un numero, mia figlia invece lo sa e ha scelto il 174, qualcosa come il “rosso segnale opaco” mi dice Google, per dare un nome al laboratorio culturale che ha messo su con i suoi giovani amici appassionati di immagini e arti visive. Lei lo sa, perché l’informazione le è arrivata per vie misteriose da sua madre, che prediligeva quel numero-colore impiastricciandone le sedie per dare al manufatto finale un’impronta cromatica inconfondibile. Io però ho scoperto due cose. La prima è che a noi genitori oramai avvizziti piace tanto il borbottio su “quanto sono ignoranti ’sti ragazzi”, ma in realtà questi ragazzi sanno molte più cose di quanto ci piace immaginare quando deploriamo con aria saccente la decadenza del nostro tempo. E’ una vita che sentiamo parlare di morte dell’arte, di fine del romanzo, di tramonto dell’Occidente, di crisi della civiltà, di decadenza dei costumi e ora finalmente è arrivato il nostro turno: “Dura minga, non può durare”. Se però guardassimo le cose con meno rancore, avremmo delle sorprese.

 

Loro, i figli, fanno gli indolenti, ma conoscono mondi che noi nemmeno immaginiamo. Quando abbiamo portato nostra figlia al MoMa di New York, abbiamo scoperto che lei sapeva cose di Van Gogh che io ignoravo. Senza mai aver frequentato un’ora di botanica, sa tutto sugli alberi e mi fa domande trabocchetto tipo: perché nei cimiteri ci sono sempre i cipressi? Io non lo sapevo, lei sì e voi sopra i cinquant’anni certamente non lo sapete. Non ha neppure una vaga conoscenza della storia e della politica, e deve pur uccidere il padre, in compenso conosce dettagli formidabili della scienza dell’acustica, davvero. Non legge un giornale nemmeno sotto tortura, ma compra un sacco di libri su Kindle, senza dirmelo per non darmi soddisfazione. L’unico particolare che mi ha confessato è che compra libri in edizione cartacea se sono piccoli, ma se sono grossi e pesanti, allora va sul supporto elettronico perché così a letto legge più comodamente con la testa appoggiata al cuscino. Conosce la fauna marina alla perfezione senza aver mai visto da lontano un’aula di zoologia. Ha pure qualche infarinatura di statica delle costruzioni, di ingegneria, di farmacologia, di filosofia pre-aristotelica, persino di idraulica. Certo, se le chiedi più o meno in che secolo sarebbe scoppiata la Rivoluzione francese, la nebbia nella sua testa è impenetrabile, esattamente come la mia quando lei mi chiede qualcosa sul movimento delle maree.

 

E poi, ecco la seconda cosa sorprendente, conosce tante cose che appassionavano sua madre. Riconosce le sfumature dei colori, i segreti delle tecniche fotografiche prima della dittatura del digitale, il significato delle forme dei mobili, gli accostamenti cromatici, l’inclinazione giusta dei pennelli, la grafica delle riviste d’arredamento, il tipo di legno da usare sui bordi delle piscine in stile minimalista giapponese, l’arte del fumetto, del graphic-novel. Una trasmissione di conoscenze e di nozioni che certamente si è realizzata lungo vie misteriose, pre-verbali, attorno a quel nucleo di emozioni e di percezioni in cui si forma il gusto di una persona, il suo stile nello stare al mondo. E questo nucleo è forse l’eredità che resta, che non si disperde, che si articola in modo inconsapevole attorno a scelte che si ripetono magicamente senza un ordine esplicito, senza un suggerimento razionale. Mia figlia vuole conoscere Amsterdam, ma chi le avrà detto che Amsterdam era una delle città preferite di sua madre, la sua patria ideale, un misto di hippysmo libertario, di vita placida che scorre attraverso quel dedalo di canali, di arte meravigliosa, di musei, di biciclette, di dimensioni umane eppure proiettate in un’atmosfera metropolitana, aperta al mondo, cosmopolita? Ecco, come fa a saperlo, mia figlia? Un processo chimico di trasmissione stilistica che mi taglia fuori, che si concentra su settori della vita e dello scibile che mi sono estranei.

 

Eppure mi sembra strepitosa questa conoscenza che rivive malgrado tutto, che non si esaurisce, che continua. Senza di me, ma con lei che non c’è più e tuttavia c’è ancora. E la dovremmo smettere di dire “questi ragazzi non sanno niente, sono ignoranti come capre”. Lo diciamo perché siamo pigri, come era pigro mio padre quando non poteva accettare che io perdessi tempo a sfogliare Linus comprato ogni mese da mia sorella più grande, pensando che tutte quelle immagini a fumetti non fossero cultura, ma qualcosa di dozzinale. Siamo pigri perché non vogliamo ammettere che il baricentro mentale e morale in cui siamo cresciuti decenni fa si è spostato, che la nostra epoca si è chiusa per sempre e che se resta, si trasmette per vie misteriose, segrete, indecifrabili. E dobbiamo solo sperare che capiterà anche a noi dopo di noi. E questo un po’ consola, basta che smettiamo di borbottare sulla decadenza dei tempi.

 

Pierluigi Battista, nato a Roma ne 1955, è inviato e editorialista del Corriere della Sera. Tra i suoi libri, “Mio padre era fascista” e “A proposito di Marta. Le poche cose che ho capito di mia figlia”, entrambi Mondadori. Nel 2018 è uscito “Il senso di colpa del Dottor Zivago” (La Nave di Teseo).

“Luna Rossa” di Rossella Milone

La domenica in cui non morii, con mio padre sul bordo del letto. Ricordi nel giorno del parto

 

“Devo dirti una cosa: domenica morirò”, mio padre non si scompose, non si rabbuiò. Mi disse solo: “Allora facciamoci una passeggiata, visto che è sabato”. La passeggiata fu bella. Andammo a vedere le ginestre sul Vesuvio e a mangiarci le pizzelle d’alghe sul Molo Granatello. Le barche tornavano in porto coi secchi pieni di alici. Gli dissi che avevo fatto questo sogno in cui una donna – non sapevo chi fosse, era solo una faccia con un neo sul mento e i capelli arruffati castani – mi diceva che domenica sarei morta. Era stata categorica, non mi aveva dato scampo come certi sogni fanno, che ti convincono di esseri veri. Io mi ero convinta che certo, sarei morta, e avevo fatto anche testamento.

 

“E a me cosa m’hai lasciato?” mi chiese mio padre, mentre addentava la pizzella. “Niente, solo i miei libri. A mamma ho lasciato i vestiti. E la casa a tutti e due”. La sera, per dare il mio estremo saluto, avevo preparato un balletto dove alla fine stramazzavo al suolo come il cigno. Mia madre andò in cucina a prendersi un cioccolatino, piangendo o ridendo non lo capii. Mi addormentai abbracciata a un cane di pezza, la notte che mi separava dalla mia morte. Era una bella notte, con una luna a metà, perfetta, come un melone tagliato in due, giallo. E un merletto tutto intorno, rossigno e nebuloso. Il sangue delle streghe intorno alla luna. Lo avevo sentito in un film – ed era un presagio pessimo, disastroso, infatti nel film morivano tutti quanti. Mi sembrava naturale, vedere quella bella luna circondata da tutto quel sangue streghesco, proprio quella notte, visto che dovevo morire. L’Universo sapeva, era pronto ad accogliermi nel suo grembo stellato, e io pensai che non era vero che si muore da soli – qualcuno, qualcosa, sempre lo percepisce, sempre ti aspetta.

 

Mio padre mi raggiunse verso le due di notte. Io ero ancora abbracciata al cane, con i piedi incrociati; l’ombra delle sue spalle incurvate sulla parete, quell’odore di pelle tiepida. “Non sono ancora morta” borbottai, distendendo le gambe, in una confortevole sensazione di libertà. Se morire significava distendere le gambe e stiracchiarsi, allora mi stava bene. “No, mi pare di no”. “Oppure sei morto pure tu”. “Non credo, tua madre russa assai, e non mi sarei svegliato, altrimenti”. Gli feci spazio sul bordo del letto. Aveva le rughe sugli occhi, non intorno, proprio sulle palpebre, ed era la cosa che più mi intristiva di lui – gli occhi che si avvicinavano piano piano allo spegnimento, a quella sepoltura definitiva dello sguardo. Era il tempo che si appoggiava su di lui come la vita su di me.

 

Infatti io non morii. Facemmo colazione con cioccolato e ricotta. Io mi tenni i libri, loro la casa. Anni dopo, mentre partorivo, pensai a questa cosa. Alla domenica in cui non morii, a mio padre sul ciglio del letto, con quelle rughe fatali. Mia figlia veniva fuori, e il ricordo mi si piazzò tra me e lei. Il dolore lo sentivo, che mi strappava la pelle in mezzo alle gambe, ma sentivo pure quell’altro dolore, appoggiato al sicuro tra i denti, che venne fuori mentre la spingevo fuori di me. Mia figlia, mio padre. La notte in cui non morii, mio padre mi disse che forse a morire sarebbe stato lui. Non sapeva dirmi quanto tempo ci avrebbe messo, ma presto sarebbe accaduto. Io gli feci notare che la donna col neo era venuta a dirlo a me, nel sogno, e non a lui. “A me lo ha già detto, un po’ di tempo fa”. “Ma era castana?”. “Non me lo ricordo”. “E quando è venuta?”. “Quando sei nata tu”.

 

Non ci capii nulla. Ma capii che era una di quelle cose che avrei compreso dopo, non prima. E allora mi tenni stretta la sua mano nella mia e decisi che quella notte avrei fatto di tutto per restare viva, perché mio padre se la meritava una figlia viva. Poi mi appoggiarono mia figlia sulla pancia; era brutta come tutte le cose sgualcite, ma era nuova, e possedeva il potere del futuro, e io ancora non sapevo di amarla; ma mentre il suo primo respiro mi cadeva addosso, il tempo mi disse, in quel preciso istante, che prima o poi sarei morta come quella domenica, ma la prossima sarebbe stato per davvero, e allora ci capii qualcosa in più: che mio padre era terrorizzato dalla mia morte così come era esaltato dalla mia vita.

 

Mia figlia piangeva e mi guardava e mi chiedeva di esistere, e io dovevo apparirle come una donna sfinita, dai capelli castani tutti arruffati, che oltre che insegnarle a vivere, a quel punto doveva anche insegnarle a morire. Era la stessa cosa, dunque, una cosa che mio padre aveva capito prima di me, solo perché gli ero nata tra le mani. Nella mia vita non si esauriva la sua morte, e nemmeno in quella nuova di mia figlia. Nessuna vita è una compensazione di un’altra, ne allevia solo il prezzo del suo miracolo. Prima di dormire, mia figlia augura a ogni cosa la buonanotte. Buonanotte case, buonanotte strade, buonanotte semafori, buonanotte luna. Ieri sera ha detto: “Guarda, è tutta rossa” e io le ho detto, “Sì, c’è sangue sulla luna, ma pure stanotte restiamo tutti vivi”.

 

Rossella Milone, nata a Napoli nel 1979, ha pubblicato racconti e romanzi. Per minimum fax nel 2015 è uscito “Il silenzio del lottatore”, per Einaudi nel 2018 “Cattiva”.

“Nel cuore delle baby sitter” di Elena Stancanelli

Non ho figli e non ho nemmeno un’esistenza fatta di abitudini. Tengo i bambini delle amiche, ma li faccio vivere nel mio spazio: quello delle eccezioni. Dove, se non si esagera, si può fare tutto

 

Le baby sitter sono femmine e giovani, quasi tutte. Hanno zaini grandi con dentro i libri da studiare per quando il pupo si addormenta, il caricabatterie per il cellulare, la felpa da indossare quando tornano a casa la notte. Sono studentesse, vestono in un modo sexy e disinvolto che crea turbamento nei padri, e nelle madri pure. Si tolgono le scarpe e si acciambellano sul divano dove seminano briciole di biscotti. Nonostante la promessa fumano in casa poi aprono le finestre e fanno sparire le cicche. Andando via, lasciano nel salotto un odore di sudore e shampoo del discount e le matite con cui si fermano i capelli, dimenticate tra i cuscini. Le baby sitter costano, e non fanno la fattura. Io no. Io tengo i pupi delle mie amiche gratis. Non fumo più, non mangio biscotti e soprattutto se sbriciolo è comunque casa mia. I pupi me li portano qui, al sesto piano, dove vivo insieme ai miei due cani. Adesso che mi hanno messo l’ascensore l’unica vera preoccupazione rimasta alle mie amiche sono i cani. Non tanto perché pensino che siano pericolosi – anche se un po’ lo pensano – ma per via dei peli. Nonostante abbia comprato una specie di scopa che si passa sul pavimento, specifica per raccogliere i peli, e la passi continuamente, soprattutto quando loro arrivano col pupo. La scopa raccoglie moltissimi peli, ma, sarò sincera, non hanno torto a farmi notare che a terra ne rimangono altrettanti. Come se oltre a raccoglierli li moltiplicasse, forse per rendersi indispensabile. O perché i peli dei cani non spariscono mai, in presenza di cani.

 

Io dico alle mie amiche che mi lasciano i pupi che farò comunque attenzione che non si rotolino per terra, e la prima cosa che faccio, appena si chiudono la porta alle spalle già in ritardo per il cinema, è mettere il pupo a terra, incoraggiandolo a rotolarsi. Lo faccio perché so che il pupo si diverte. Ma non solo per questo. Le baby sitter, lo dico come rappresentante di categoria, pensano che i genitori si comportino coi figli in maniera isterica. Che siano troppo apprensivi, che impediscano loro di crescere facendo degli errori, sperimentando. Che siano rigidi negli orari e inflessibili nella scelta del cibo. Per quale ragione, pensano le baby sitter, non dovrebbero mangiare le caramelle o il formaggio o assaggiare un sorso di champagne, se lo desiderano? Un sorso di champagne rende la vita migliore a chiunque, anche a un pupo di un anno, pensano le baby sitter in fondo al cuore. Eppure si trattengono, non fanno proprio tutto quello che riterrebbero giusto. Io, per esempio non ho mai fatto bere niente che non fosse acqua ai pupi che avevo in custodia. Però li ho fatti impanare di peli gattonando sul pavimento e non li ho allontanati quando uno dei miei cani, come segno di amore e rispetto, ha dato loro una leccatina in faccia. C’è un mondo dietro ogni porta chiusa, un mondo invisibile. La cosa migliore è ignorarlo, fingere che non esista come la luce dentro il frigorifero. Che importa se sia accesa o spenta quando non la vediamo? E’ uno spreco di tempo e di energia occuparsi di quello che le persone – mariti mogli amici amanti baby sitter… – fanno in nostra assenza. Quello che conta è che tornino a noi, da qualunque posto abbiano visitato dietro la porta, proprio come li abbiamo lasciati, o magari migliori.

 

Così le baby sitter, nella maggior parte dei casi, riconsegnano alle madri i pupi incolumi. Coperti di peli di cani, con il naso moccicoso, le tutine macchiate ma senza ferite sanguinanti o avvelenamenti in corso. Questo perché le baby sitter, come gli amanti o ogni altra forma di distrazione, sono saltuarie. Vivono nello spazio ricreativo dell’esistenza, quello delle eccezioni. Dove, se non si esagera, si può fare tutto. Le piccole trasgressioni, restano piccole fin quando non diventano abitudini. Solo in quel momento diventano grandi, e pericolose. Io non ho figli, e vivo tutta la mia vita in quello spazio lì, quella delle eccezioni. Forse anche perché non solo non ho figli, ma non ho nemmeno un’esistenza fatta di abitudini. Tranne la scrittura, non ho visto crescere niente di mio. Eccetto i miei cani, ma i cani sono cani, su questo non mi sono mai fatta illusioni. Però mi sono occupata di moltissime cose, persone, pupi. Per un po’. O magari anche per molto tempo, ma non un tempo continuato. Questo ha fatto di me una persona capace di cedere a seduzioni che mostravano la loro vita effimera fin dalle premesse, ma reticente rispetto alle relazioni lunghe. Sono andata via da quasi tutto, per paura di vederlo morire, perché non l’avrei sopportato. Persino di me smetto di occuparmi, dopo una certa quota di sofferenza. Una cosa sola mi dispiace: chi ha figli ha dovuto imparare a credere che a un’azione corrisponde un risultato, che se ci si comporterà in un modo finirà bene, altrimenti sarà un casino. Che se si beve champagne a un anno, prima o poi si finisce nei guai. Io no. Io, purtroppo, non ho mai avuto prove che una buona manutenzione dell’esistenza sia la strada migliore, o almeno quella che ti farà sopravvivere più a lungo. Peccato, forse sarei stata più felice, o almeno più serena.

 

Elena Stancanelli, nata a Firenze nel 1965, ha esordito con “Benzina” (Einaudi, 1998). “ “Benzina” (Einaudi, 1998). “La femmina nuda” (La nave di Teseo) è stato finalista al premio Strega 2016. Di quest’anno “Venne alla spiaggia un assassino” (La nave di Teseo).

“La mia malinconia” di Antonio Pascale

I figli sono grandi e a Natale non mi stanno più addosso. Penso alla vecchiaia che mi aspetta, devo fare una faccia strana, perché mia mamma, mentre passa, mi fa una carezza

 

Un tempo le vacanze di Natale erano più belle. Per esempio, potevo scegliere i regali per i bambini. Anno dopo anno mi dicevo: stanno crescendo, e cercavo allora di indovinare il regalo adatto alla loro nuova età. E ne ho fatti di regali: lettere magnetiche, chiodini, libri di ogni ordine e grado, aerei e missili, costruzioni intelligenti, pistole e sì, pure qualche orsetto di pezza. Poi abbonamenti a palestre, biciclette, pattini e macchine fotografiche. Babbo Natale portava i doni e la Befana le caramelle. Il salone pieno di pacchi e le lunghe ore pomeridiane insieme a loro. Un tempo erano belle le vacanze di Natale e tuttavia, ammetto che, non dico a Natale ma a Santo Stefano cominciavo a provare un po’ di stanchezza. E fai partire i missili, gioca con le costruzioni, monta le piste e pattina in piazza insieme a loro. Il momento simbolico della suddetta stanchezza non è mai cambiato.

 

Quando mi toccava sistemare nel cassonetto nell’immondizia (pure differenziato) le confezioni di cartone e polistirolo e tutte quelle carte dorate usate per i regali. No, per carità, bello stare con i bambini però a volte, che noia. Troppo impegno, troppe aspettative, troppa concentrazione su di loro. Tutte quelle ore vuote. Papà, uff, mi annoio, mi annoio, facciamo qualcosa, mi dicevano. E inventiamoci un’uscita, qualcosa, un gioco. E ne ho inventate di improvvisate per scacciare la noia. Ah, erano belle le vacanze di Natale di quando ero bambino io. Vero, nulla cambiava, i regali e le confezioni di polistirolo e le lunghe e noiose ore pomeridiane, ma nessuno, allora, si occupava di quella noia. Insomma, i miei, sì ma non solo i miei, anche i genitori dei miei amici, i parenti tutti non si curavano troppo della nostra noia. Ti annoi? E vai in giardino a giocare, vai in bicicletta, prendi la fionda e mira agli uccelli, fatti una passeggiata, e che vuoi da me, guardati un po’ di televisione.

 

Invece durante le feste di Natale e l’abbuffata di regali, dopo che, Natale dopo Natale, cercavamo di interpretare e poi registravamo con puntiglio scientifico tutte le sfumature (di desideri e ambizioni, voglie e nuove gioie) delle loro nuove età, ecco, a un certo punto (io sempre allo stesso punto) mi rendevo conto che mi stavo stancando, mi stavo annoiando, e anche loro. Bisognava prendersi cura della loro noia. Il fatto è che mi stavano addosso, troppo, questa è la verità. Gli abbracci di Marianna sul lettone, i giochi con lei e le invenzioni, le lotte con Brando, le passeggiate con entrambi e le uscite differenziate: porta Marianna alle mostre, ai musei, a teatro. Brando a giocare a calcio, al cinema e per negozi. Quando passano queste feste di Natale? Così mi riposo. E finalmente sono passate. Sono grandi, i regali se li scelgono loro, alle mostre, al cinema e fare shopping ci pensano da soli e la preoccupazione di quelle ore vuote non c’è più. Ora, finalmente posso selezionare il tempo, fare cose mirate, con più qualità, per esempio andare a disturbare Marianna mentre studia. Studia sempre, sempre. Nelle ore vuote pomeridiane si sente solo la sua voce, ripete e ripete, un lungo soliloquio, blablabla. Come mi piace allora sorprenderla, e prenderla in braccio e sbaciucchiarla, fai la scimmietta, dai aggrappati come quando eri piccola. E lei mi guarda e mi dice che è stanca, è stanca soprattutto di me, la innervosisco. Ha inventato anche un misuratore di nervosismo. Una specie di bilancia, me la mostra, appena appaio con le mie richieste un braccio del bilanciere si impenna.

 

Tento allora con Brando, che studia sì ma un po’ di meno. Parlo di calcio e di nuovi brand, di musica rap e di Louise C.K. ma inutile, mi guarda come fossi il nonno: le cose di cui parlo, brand, musica e pure Louise C.K. per lui sono vecchie, passate, sono fuori tempo massimo, c’è dell’altro fuori, ma purtroppo non me accorgo, sarà la vecchiaia. Mi chiedo: ma perché non sono sdraiati? Se lo fossero potrei almeno provare a imporre, cioè imporre è brutto, provare a far passare i miei temi. E invece mi tocca sentire (quando la bilancia di Marianna è sotto tensione) affermazioni così: non sopporto la morale di padri che non si interessano mai di niente se non per tardivi e inutili sensi di colpa. Vabbè. Mi sto preparando a queste lunghe ore natalizie, sapete come? Me ne vado a Caserta. I miei abitano lì, sono anziani, ma stanno bene. Mangio con loro, gli chiedo: com’era il Natale di quaranta e passa anni fa? E loro mi raccontano dei regali che mi facevano e di quanto a volte ero scocciante perché mi annoiavo tanto, non riuscivo a finire un gioco che già ne volevo un altro. Così, a volte mentre loro parlano, penso alla vecchiaia che mi aspetta. Devo fare una faccia strana, malinconica, perché senza dirmi niente, mia mamma, mentre passa, mi fa una carezza.

  

Antonio Pascale, nato a Napoli nel 1966 e cresciuto a Caserta, è scrittore e agronomo. Il suo ultimo romanzo è “Le aggravanti sentimentali” (Einaudi, 2016). Scrive per la tivù e per i giornali, collabora con il Foglio.

“Io e mio padre” di Alberto Schiavone

Ho iniziato a non sopportarlo più quando ho capito di essere come lui. Ho scelto la vita e l’errore

 

Ho iniziato a non sopportare più mio padre quando ho capito di essere, accidenti agli dèi, come lui. Tutto è accaduto per gradi, come è ovvio che sia e come succede tanto spesso nei rapporti tra le persone. Ancora di più tra familiari, ancora di più tra padri e figli.

 

Non so se ho capito molto di quello che partecipa a deteriorare un rapporto così imprescindibile, sacro. Certo, ci sono i cosiddetti fatti concreti, ma ho il sospetto siano soltanto sintomi. In ogni caso succede. E’ successo a me e non sono il primo, non sarò l’ultimo. Tra gli scrittori poi, la fila e la bibliografia è lunga e variegata. C’è chi si porta dietro per tutto il segmento di vita e di carriera quel grumo decisivo, chi lo getta spudoratamente nei propri scritti. Chi lo aggira.

 

Ho capito, questo sì, che alcune persone possono semplicemente, anche se è tremendo dichiararlo in un argomento simile, smettere di avere voglia l’uno dell’altra. Anche amori riusciti si guardano ormai attraverso vetri opachi. Sorridendo, nel migliore dei casi.

 

L’essere adulti l’ho inseguito subito con ferocia, andando via presto di casa, autodeterminandomi attraverso il lavoro e una casa mia. Soprattutto l’agognata indipendenza economica che volevo mi emancipasse all’istante, mi ha costretto a fare i conti con due persone che fino a quel momento avevo soltanto trattato per sentito dire. Io e lui.

 

Abbiamo smesso di sopportarci. Fingendo complicità negli anni a venire, anche a distanza di chilometri, prolungavamo soltanto uno straziante abbandono. Doloroso, certo. Tutti quanti avrebbero bisogno di un padre e di carezze. Ma si può camminare nel mondo anche senza, relativizzando la propria sventura. Aspetto che, sia messo agli atti, non avviene mai. Inesorabilmente tutte le persone vicine a “colui che ha un rapporto pessimo con il padre” finiscono con l’avere a che fare con, appunto, il padre. Spesso senza nemmeno averlo mai incontrato. Si può passare tanti anni tentando di individuare colpe, andando (o meno, come nel mio caso) in analisi, bevendoci sopra. Piangendo. Nel momento dell’età adulta succede di osservare spesso le attività umane alla maniera degli scienziati, tirandosi fuori da un percorso egosolidale e imbracciando la ragione. E’ un buon metodo.Un mondo in cui prima passeggi perfettamente, con inquietudini, paure gioie banali. E che piano invece si sposta, quasi si sgancia da te. Lo raggiungi facendo un giro largo e con lo sguardo esterno, e inizia a guardare anche te stesso che si muove all’interno. Un personaggio in più.

 

Quello stesso personaggio a cui ti eri abituato durante gli anni, e al quale adesso non perdoni un passo senza doverlo sottolineare. I perché. I come mai. Gli indizi che dicono che sta sbagliando. Come fa a non rendersene conto! Se fosse un tuo amico, o un interprete di un film, sapresti esattamente cosa dirgli e consigliare per metterlo in guardia. Ma sei tu.

 

Certo, si possono dare le pagelle. Dove ho forse sbagliato, io? Di fronte ai tanti errori suoi! E questo è un esercizio rassicurante, perché ti porta sempre più velocemente verso la direzione voluta, cercata, verosimilmente più definitiva e fors’anche comoda. L’addio.

 

Come quando all’interno dei matrimoni che iniziano a sommare gli anni insieme si viene raggiunti da quei pensieri sferici e perciò perfetti, seppur inafferrabili: lascio tutto. La vita è altrove. Può darsi. Il bivio tra il decidere di macerarsi insieme o macerarsi ognuno nel suo metro quadro è fondamentale. Io ho virato sull’individualità. La mia e la sua.

 

Ci siamo detti le peggiori parole e vomitato addosso rancore e frustrazioni reciproche. Abbiamo poi smesso di fare anche quello, in rumorose solitudini che aspettano di avere ragione. Io sono convinto che lui sia uno stronzo, lui probabilmente altrettanto. Due posizioni che si sarebbero potute risolvere con l’intento reciproco di raggiungersi a metà. Dirsi: ok, sei stato (o “sono stato”) uno stronzo, ma da adesso in poi basta, comportiamoci come il mondo e la Storia ci chiedono. Non ne abbiamo avuto necessità, voglia. Può sembrare strano, ma è così. Si può decidere di partecipare a una disperazione, faticare per raggiungere un traguardo. Oppure no e vivere nell’imbarazzo.

 

Bisognerebbe scrivere un libro dei rimpianti in cui riaffrontare ogni bivio dalla parte giusta, che poi è quasi sempre quella che non abbiamo deciso quando potevamo. Ma sarebbe un libro scritto senza l’anima e il furore, quindi debole. Ci sono libri deboli che arrampicano le classifiche e vincono premi, è vero. Ma si sceglie la vita e si sceglie l’errore, che è cosa più difficile di amare oppure odiare un padre, perché con i sentimenti semplici e definitivi è tutto più veloce. Nelle zone grigie si insinua sempre la letteratura e la vera letteratura non si posiziona mai dove si rimane troppo comodi. Che è quello che chiediamo alle vite vere. Compresa la mia.

  

Alberto Schiavone, è nato a Torino nel 1980. I suoi ultimi romanzi, usciti per Guanda: Ogni spazio felice” (2017) e Dolcissima abitudine” (2019).

“I teneri padri so-tutto-io” di Sandro Veronesi

Provo una specie di strana infelicità retroattiva al pensiero che mio padre non mi ha mai portato una bibita mentre giocavo a palline sulla riva del mare ma mi ha sempre strappato alle mie inezie

  

Dopo aver letto la bella cronaca di una giornata al mare pubblicata su queste pagine da Annalena Benini ho passato l’estate cercando di fare caso, sulla spiaggia, a questi padri tatuati e moderni e dediti al divertimento dei propri bambini, e in effetti li ho visti, li ho visti eccome, sono anzi, proprio la cosa più vistosa e a tratti anche rumorosa delle spiagge affollate. Ovviamente, sono anche ridicoli, a volte addirittura patetici. Molti, quelli più giovani, innestano questa loro esibizione su una incongrua, a quel punto, estetica hipster, fatta di barba curata, fisico asciutto, occhiali da sole, orecchini e, per l’appunto, tatuaggi aggressivi: e così carrozzati li vedi gonfiare canotti, cambiare pannolini, trascinare grappoli di bambini eccitati. Tutta quella loro compenetrazione nel ruolo, in effetti, sembra stucchevole, e soprattutto superflua, perché è ovvio che la bambina mangerebbe la pappetta anche senza che il papà le canti la canzoncina dei Puffi. Però, però, però…

  

Però, insieme a questo rilievo, mi sono sorpreso a farne anche un altro, parallelo e di segno opposto. Che bella cosa è questo fenomeno, pensavo, che enorme passo avanti dell’umanità. Padri che si prendono cura dei propri bambini, in massa, ordinariamente, allegramente, e sapendo con precisione cosa devono fare. Certo, come tutti i fenomeni vistosi ci si ritrova presto a intuirvi, o direttamente a rintracciarvi, esibizionismo, conformismo, o addirittura prono asservimento; ed è pur vero che in questo modo si rischia di tirar su milioni di piccoli ducetti e di piccole tiranne che poi faticheranno a trovare un limite ai propri bisogni. E tuttavia, com’è rassicurante vedere questi padri così compresi in un ruolo che i loro, di padri, non hanno mai nemmeno preso in considerazione. Annalena Benini a un certo punto si chiede dove siano i padri confusi, in queste spiagge, e soprattutto dove siano le madri. Ebbene: i padri confusi non ci sono più, e le madri sono sui lettini, sole, lasciate un po’ in pace, a spippolare sui telefonini. Non è forse un passo avanti, questo?

  

Penso ai nostri padri novecenteschi, penso a mio padre: non mi è forse mancata una che sia una canzoncina cantata da lui mentre mi imbocca la farina lattea Erba? Quel suo splendore duro e scolpito nel marmo, fatto di sole cose importanti, non era forse anche una fuga dalla mia vita di bambino? Oh, io l’ho sempre amato tanto, mio padre, uomo giusto, solido e pieno di passioni: ma si è forse mai dedicato al mio benessere spicciolo, ai miei bisogni stupidi, ai miei capricci? Per quello c’era solo mia madre, dovunque, in città e in villeggiatura, a casa e in spiaggia, e se anche avesse potuto e ne avesse avuta voglia lei non aveva proprio il tempo per chattare al telefonino. Ne ricordo molti altri, di padri come il mio – anzi, erano tutti così. Niente quisquilie. Niente ninne nanne. Solo cose importanti.

  

E però, mentre nascevo con due giri di cordone ombelicale attorno al collo, rischiando di restarci secco e di tirarmi dietro anche mia madre, lui non era lì davanti infagottato in quel ridicolo scafandro verde dal quale io ho visto nascere cinque figli, con la mascherina sul naso e le soprascarpe per non infettare, ma fuori, in sala d’aspetto, a fumare Muratti e a leggere “L’occhio nel cielo” di Philip K. Dick, della collezione di Urania – sul cui frontespizio ha scritto a lapis, perché ovvia-mente era molto emozionato, con la sua calligrafia geometrica, la seguente frase: “Buongiorno, signore e signori. Sto per presentarvi un nuovo amico: la signorina Giovanna o forse no, il signor Alessandro. Ma, attenzione… arriva l’infermiera… ora sapremo… eccola, si avvicina… Signore e signori, è arrivato Alessandro”.

  

Questo suo modo irrilevante di aspettarmi, ignaro, tagliato fuori, in compagnia di sigarette e fantascienza, e soprattutto questa sua nota scritta sul libro, mi hanno sempre ammazzato di tenerezza. Ma ora, devo dire, mi ammazzano di tenerezza anche i padri opposti a lui, come io stesso sono – sebbene meno vistoso, meno tatuato –, che sono stati presenti fin dal primissimo istante di vita dei loro figlioli, che hanno cambiato pannolini, riscaldato omogeneizzati, rifatto lettini, cantato canzoncine e ballato come deficienti per cercare di in-trattenere un rapporto con esseri misteriosissimi che devono ancora accettarli, mentre sono già un tutt’uno con le loro madri. E provo una specie di strana infelicità retroattiva – un’infelicità che non ho affatto provato, sia chiaro, quando ero bambino – al pensiero che mio padre non mi ha mai portato una bibita mentre giocavo a palline sulla riva del mare, ma mi ha sempre solo strappato alle mie inezie, caricandomi a forza sul Flying Dutchmann per insegnarmi ad andare a vela, o buttandomi nell’acqua alta per impartirmi una lezione di nuoto.

  

Sbagliano ora, i padri, ma sbagliavano anche allora. Siamo padri, del resto, come facciamo sbagliamo. Ma così come ho sempre ammirato quel mio padre normativo e timido, che si sarebbe vergognato a chiedere alla mamma come si chiude un pannolino, ora mi ritrovo ad ammirare questi padri so-tutto-io, che si annullano negli istanti di vita dei propri figli sperando, anche solo per caso, di soddisfare una loro vera necessità. Per tutto questo, al ritratto che ne ha fatto Annalena Benini – ironico ma rispettoso, e soprattutto veritiero – mi sento di aggiungere un aggettivo: tatuati, moderni, perfetti, ridicoli, sì – ma anche benedetti.

  

Sandro Veronesi, nato a Firenze nel 1959, ha vinto il premio Campiello nel 2000 con “La forza del passato” e il premio Strega nel 2005 con “Caos Calmo” (entrambi Bompiani). Ha pubblicato romanzi, racconti, reportage e saggi.

“Le bugie che dico a mio figlio” di Ilaria Bernardini

Gli ho detto milioni di volte che non bisogna avere paura. E gli ho taciuto certe pagine delle fiabe. La mamma non è morta, è svenuta ma niente di che, gli aerei non cadono mai: viva la vita, amore!

 

A mio figlio dico le bugie. Alcune le ha già scoperte, altre no. La prima bugia che gli ho detto è stata: dire le bugie è sbagliato, non si fa mai. A seguire gli ho giurato che dormire da soli è più bello che dormire in due. Non ci credo davvero ma visto che lui deve dormire da solo ho cercato di fare di un nostro bisogno una teoria. Gli ho poi detto milioni di volte che non bisogna avere paura. Proprio di niente. Ho divelto – imbastendo la questione con aggettivi sempre più seducenti – teorie di altri genitori o maestri, che implicavano allarmi e dottrine. L’ho fatto simulando serenità e assoluta attendibilità. Gli ho mentito con consistenza sulle cose piccole che celano continue insidie. Esempio: ci sono varie fiabe in cui la mamma muore e i bambini sono orfani. Muore quasi sempre nei Grimm ma muore troppo spesso pure in Roald Dahl. E la mamma muore subitissimo: prima pagina, dolore assoluto. Ecco io per anni ho saltato la premessa. Dicevo che la mamma non c’era trallallà o la mamma era svenuta ma niente di che o era a Bari per cose sue di doveri semplici, per altro doveri molto piacevoli (“Viva la vita, amore!”). Il nostro protagonista di fiaba era così rimasto solo a Milano o in una foresta ma non per un motivo triste (“Casa è ovunque, amore!”) e come diretta conseguenza di questa buffa, per nulla allarmante, separazione madre-figlio, le arrampicate narrative, il continuo reimpostare la trama per tenere in piedi la bugia, portavano a storie noiosissime e/o a epiloghi insensati. Le arrampicate poi avvenivano tra la veglia e il sonno e assumevano tratti monumentali o miseri a seconda dei martedì e a seconda dell’umore. Ma la mamma è ancora svenuta? Sì, amore. Svenire fa male? No, è divertente! Ma questa mamma solo per andare a divertirsi a Bari lascia il figlio a una matrigna che vuole mangiargli le cosce e divorargli gli occhi? Le mamme quindi possono essere cattive? Basta, è tardi, taci. Appena mio figlio ha capito che avevo paura di dire “mamma-morta”, ha iniziato a prendermi in giro. “Ok, confessa, morta anche stavolta?”.

 

Ha anche scoperto che le fiabe sono decisamente meglio di quanto pensasse. Altre bugie che gli ho detto sono state sulla morte in genere (“Morirò mamma?”. “Non è detto. Che il sole sorga domani è un’ipotesi eccetera”). Ho poi spesso contato sulla vaghezza del concetto giorno-notte nella mente del bimbo, millantando che stavo via tre giorni e ne stavo via cinque o anche sette. Sono arrivata a tredici. E quando lui mi ha chiesto: “Tu hai almeno centocinquanta euro in banca così siamo a posto?”, io ho detto “Sì, in banca ho centocinquanta euro e ci basteranno per sempre”. Ho giurato che il dentista non fa mai male. Ho garantito che da noi non ci saranno mai le bombe e che anzi lui forse porterà la pace nel mondo: ci tiene a essere rassicurato su questo fronte e sento di doverlo sostenere (che il sole sorga etc.). Gli ho spiegato che i ladri da noi non entrano mai perché chi si fida viene trattato bene sempre e nessuno gli fa male mai. Ho detto – visto che tutti i mesi prendiamo almeno un aereo insieme e lui ogni mese ne prende anche uno da solo – che gli aerei non cadono. “Gli aerei che cadono”, perché ne ha visto uno su un giornale e ho dovuto dare una spiegazione come per le mamme morte, “sono solo quelli di latta”. Ho detto “di latta” e l’ho detto senza tentennare, “e gli aerei di latta ci sono solo nei paesi poverissimi, lontanissimi da qui, non so neanche i nomi di quei paesi poverissimi (che comunque dobbiamo sempre aiutare, in ogni modo possibile e visto che noi abbiamo centocinquanta euro, che c’importa?)”. Ho ovviamente confermato che Babbo Natale esiste (ma esiste solo fino a dodici anni e segue più o meno le stesse regole del minore non accompagnato di Alitalia ed è proprio per questo che l’aereo di mio figlio non può cadere. E questa, mi rendo conto, era una bugia veramente tirata per i capelli ma con l’aiuto di Babbo Natale a fare da diversivo, grazie cioè a quella sua mega pancia e alla sua super barba, mio figlio ha accolto la balla).

 

Avendo quindi costruito per lui una “teoria del tutto” falsata – ancora più traballante poiché sentimentale – fondata sulla ripetizione ossessiva di concetti romantici e su un ottimismo francamente allucinante, penso a volte alla mamma cattiva di Bad Boy Bubby che aveva convinto il figlio che fuori dal loro appartamento non c’era l’aria. Se sono più serena penso pure a Captain Fantastic. E se guardo alle dittature di ogni genitore, vedo che siamo tutti fornitori di convinzioni, tramiti per sistemi di valori totalmente random. I sistemi comprendono il fritto – fa in fondo bene, fa veramente malissimo – e quello che si pensa sui compiti, i migranti, passando per Israele, le donne e cose come se si può ammazzare un uomo. O ammazzare un bambino. “I bambini sono meravigliosi. Questo prima che sappiano alcunché”, dice Safran Foer nel suo ultimo libro e a me pare molto vero. Così a mio figlio dico le bugie e vendo incertezze per certezze, baratto paure con la parola forza, conscia di simulare e di essere in totale choc davanti a tanta meraviglia, a tanta purezza. La bugia fondante infatti è che io non proteggo lui. Io proteggo me.

  

Ilaria Bernardini, nata a Milano, dove vive, ha scritto racconti e romanzi, tra cui “Corpo libero”, “Domenica” (Feltrinelli) e “Faremo Foresta” (Mondadori, 2018). Scrive anche per la tivù e per il cinema.

“Le notti con i tappi nelle orecchie” di Valerio Magrelli

Ecco perché non mi svegliavo mai! Vile, mi disse mia moglie, vile! E aveva ragione. Ma io dovevo pur sopravvivere, e giunsi a sostenere che lo facevo per lui, il nostro piccolino, per evitare di farne un povero orfano in età prematura

 

A Marco Peano

Riprendo un mio vecchio scritto e lo sfrego forte, in modo da riaprire la vecchia ferita. Ogni figlio dà fuoco alla giovinezza dei suoi genitori. La mette a fuoco, e ne ottiene così delle persone nuove, padri, madri, metalli passati alla forgia: creature metamorfosate. Alzarsi alle quattro di mattina, nel cuore della notte, per cullare un estraneo, l’estraneo più soffice che si possa immaginare. Atroce pensiero alla Philip Larkin: “L’uomo passa all’uomo penuria. / Si approfondisce come un’insenatura. / Esci prima che puoi, / E non aver figli tuoi”. Io non faccio testo. O meglio, il mio testo proviene dal contesto avvelenato di chi ha dovuto seguire l’operazione di due neonati. Ecco perché il neonato per me è soltanto un paziente di troppo. L’odore di borotalco si mescola al sentore di disinfettante. Fra culla e barella, non vedo soluzione di continuità. La balia si trasforma in infermiera. Basta un attimo, e i due mondi confliggono; dal biberon, passo all’esile forca da cui pende la flebo, mentre il neonato scivola dal pannolino al cerotto. Un bimbo in fasce? Meglio: un bimbo in garze. Clarice Lispector: “Nascere, mi ha fatto male alla salute”. Meglio Cechov, allora: “Da morti si spende di meno”. Le sue cure, dentisti, dermatologi, vaccini: tutto si raddoppia, e perciò ci dimezza. A meno, va da sé, di disinteressarsene. Da un film americano di serie B. Il figlio al padre: “Maledetto! Mi hai rovinato l’infanzia!”. E il padre: “Io? Ma se non c’ero mai!”. No, io invece faccio il padre di mestiere.

 

Che costi, però! Bisogna rassegnarsi a versare tutto il proprio tempo in un altro recipiente, in un recipiente nuovo, ovvero il figlio. Si compie un’operazione di trasloco, che ti trasloca da te al suo Io. E’ giusto, poiché ha bisogno di materiale edile per erigere il suo sé. E da dove prenderlo, se non dal genitore? Si parva licet, pensare a Palazzo Barberini, costruito con i frammenti del Colosseo. Un’impresa di smantellamento: “Quod non fecerunt barbari, Bambini fecerunt”. Il sonno, la stanchezza, il peso – curvarsi, piegarsi, sollevare. Un medico mi disse che questi sono gli anni che vedono trionfare “il colpo della strega”. La schiena dei padri si spacca, alzata dopo alzata (le madri meno). Il ginocchio sinistro, invece, mi venne operato dopo sei mesi trascorsi a spingere mio figlio in bicicletta. Un penitente, io, che avanzava chino, recando la sua immagine votiva. A volte mi veniva da scappare. E mi immaginavo nei panni di quei carcerati che cercano di evitare gli inseguitori. Calarsi nell’acqua gelata, far perdere le tracce alla muta dei cani smaniosi, restare appeso al respiro con un esile tubicino. Funzionerà? Chi può dirlo? Può darsi. Ma già mi sembra di sentire il grido del capocaccia, il pianto del primogenito, che in qualche modo ha ritrovato l’evaso. Machiavelli: “Fare figli è come dare ostaggi alla fortuna”.

 

Non solo: a ben vedere, per concepire un figlio e soprattutto allevarlo, bisognerebbe essere almeno in otto. Ci vorrebbe una squadra, uno staff, un reparto, come con un detenuto pericoloso. Attenzione, però: questa impressione di profonda ostilità, nasconde solo un illimitato senso d’impotenza. D’altronde, fare un figlio significa abbandonare una persona di notte, per strada, con una gomma a terra. Il minimo che possiamo fare, in attesa di andarcene, è insegnargli a cambiarla (perché, se tutto va bene, noi ce ne andremo prima, lasciando quel poveretto nei guai, a cavarsela da solo). Impossibile negare l’evidenza di aver convocato dal nulla degli esseri che non avrebbero mai avuto la minima intenzione di venire al mondo. Chateaubriand: “Mia madre mi inflisse la vita”. Siamo noi ad averli tirati in ballo, trascinandoli su questa pista arroventata; ecco perché dobbiamo loro tutto. E’ ora di assumerci le nostre responsabilità in quanto genitori-generatori del “danno” (dal verbo “dare”, riferito cioè a una vita “data”). E’ questo il vero nodo del problema: “Solo Cristo / ebbe la forza di darsi la vita”. Infatti, nell’atto della copula, possiamo infliggere l’esistenza a un individuo non consenziente, ma non certo a noi stessi. Pur potendosi dare la morte (come massima prova della propria libertà), l’uomo è costretto a ricevere la vita. E chi sarebbe tanto folle da affibbiarsela? Questa è l’unicità del Cristo-Dio: un suicida alla rovescia.

 

Il Figlio costituisce quindi l’irruzione di una creatura d’inaudita potenza nella vita di una coppia. Creatura sovrana perché sovranamente indifferente ai nostri sforzi. “Cricche e cracche!”. Il figlio svelle e sfonda la vita dei suoi genitori. Ricordo ancora la notte in cui mia moglie scoprì che mi mettevo i tappi nelle orecchie… Ecco perché non mi svegliavo mai! Vile, mi disse, vile! E aveva ragione. Ma io dovevo pur sopravvivere, e giunsi a sostenere che lo facevo per lui, il nostro piccolino, per evitare di farne un povero orfano in età prematura. Perché l’uccisione del padre (la madre è un osso duro) non ha davvero nulla di simbolico, ma rappresenta un progetto concreto. Resta comunque un dato incontrovertibile: vedere i figli crescere, è bellissimo, perché crescendo si allontanano dall’infanzia, dal terreno minato di un’età che piange, trema, teme, grida, caca.

  

Valerio Magrelli, nato a Roma nel 1957, è poeta, scrittore, traduttore e docente universitario. Le sue poesie sono raccolte nel libro “Le cavie: poesie 1980-2018”, uscito nel 2018 per Einaudi. Del 2018 anche “Il commissario Magrelli”.

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