Federico Baroccio, Fuga di Enea da Troia e San Girolamo, 1598

Il mondo salvato dai figli

Francesco Piccolo

Mio figlio mi guarda, mi abbottona la camicia, mi tiene da parte il gelato, mi chiede se sono stanco. A undici anni non vede più la mia forza e io sento che ha ragione lui. Un racconto esclusivo di Francesco Piccolo

Questo racconto esclusivo di Francesco Piccolo è stato pubblicato per la prima volta nel Foglio monografico del 9 settembre 2019, insieme a una selezione delle migliori storie d'autore scelte dalle pagine settimanali del Figlio, l'inserto a cura di Annalena Benini. Qui il numero completo


 

Mio figlio mi guarda sempre. A un certo punto ha deciso che io non ce la faccio, e non ce la farò. Sono sicuro che pensa che sono incapace di vivere, non so se pensa che mi ammalerò, che morirò. Più precisamente, io credo pensi che non ce la faccia a essere felice. E da quando lo ha pensato, la sua preoccupazione principale sono io; ha deciso che non sono in grado di badare a me, e deve badarci lui. Ogni giorno mi chiede se ho dormito, se mi sento bene, se ce la faccio a uscire, se voglio che camminiamo lentamente; ogni giorno mi lascia le cose buone da mangiare, perché sa che mi piacciono e vuole che le prenda io. Mi abbottona la camicia quando ho saltato un bottone, mi chiede se il film mi sta piacendo altrimenti ne guardiamo un altro, mi chiede se qualcuno mi ha fatto arrabbiare, se sono triste per qualcuno che sta lontano, se voglio un maglione perché gli sembra che ho freddo, se sono stanco dopo che abbiamo fatto qualche tiro al campo di basket. Mi chiede se voglio tornare a casa o se voglio uscire, vuole che scelga io la pizzeria, mi tiene da parte i gusti di gelato che mi piacciono (e piacciono anche a lui). Mi accarezza, mi abbraccia, mi chiede perché sto zitto, si preoccupa anche quando sono troppo allegro perché poi mi intristirò; e per il resto del tempo mi guarda, per capire se c’è qualcosa che non va, se può fare qualcosa per me.

  

La vignette di Makkox


   

Il fatto è che mio figlio ha undici anni, e non avrebbe l’età per accudirmi. E io ho cinquantacinque anni, e non avrei ancora l’età per essere accudito. In realtà pensavo di essere se non al massimo delle forze, almeno in un’età in cui potevo esprimere, o stavo addirittura esprimendo una quantità notevole di energia vitale, di capacità di fatica; e in questa prospettiva, ero assolutamente in grado di badare non solo a me stesso, ma anche a un bambino di undici anni. Insomma, credevo di essere una persona soddisfatta e un padre affidabile.

   

La sua preoccupazione,
la sua dedizione,
hanno frantumato
le mie certezze
in pochissimo tempo

E invece la sua preoccupazione, la sua dedizione, hanno frantumato le mie certezze in pochissimo tempo. Mi intenerisce questa preoccupazione, ma soprattutto provo tenerezza per me stesso, un sentimento che non avevo mai nemmeno immaginato di provare. Mi sento come lui mi percepisce, e non credo ci possa essere un errore. Sento adesso di non farcela, qualsiasi sforzo faccia. E il motivo è semplice: un bambino di undici anni non è naturalmente predisposto ad accudire, ma ha di sicuro un intuito infallibile; ha l’istinto della sopravvivenza, come quei bambini che durante la guerra si comportavano da adulti per necessità. E anche lui per necessità ha lasciato da parte le sue esigenze e fin da quando si sveglia è in allarme per me. Quando la sera torno a casa, corre alla porta e mi abbraccia e mi chiede se sto bene, se il piede mi fa male, se ho lavorato, se sono allegro, se sono stanco, se ho fame.

   

La canzone di Ultimo, “I tuoi particolari”, comincia così: “E’ da tempo che non sento più / la tua voce al mattino che grida bu! / e mi faceva svegliare nervoso ma…” – e questo “ma” rende nostalgico quel ricordo piuttosto discutibile. Lei gli urlava “bu!” mentre lui stava dormendo, e infatti lui si svegliava nervoso ogni mattina. Ogni mattina. Una cosa sfinente. Eppure adesso quel momento odioso gli manca, perché lei se n’è andata.

  

  

Parlo di questa canzone perché per un periodo anche mio figlio faceva “bu!”. Ogni giorno mi sveglio prestissimo e mi metto a lavorare. Così, concentrato sul computer nel silenzio assoluto della mattina presto, lui si svegliava, veniva in cucina in punta di piedi e poi con un salto urlava: “bu!”

  

Era una cosa che mi innervosiva – no, di più: mi faceva incazzare, e mi lasciava una rabbia addosso per molte ore. Gli chiedevo di non farlo più, ma lui non resisteva. Fino a quando un giorno ho urlato minacciandolo in modo così violento che lui si è spaventato e ha smesso di farlo. Quel bambino di prima era molto diverso da quello di ora, e anche quel padre di prima se si incazzava faceva paura. E anche io preferivo quando mi diceva “bu!”, perché mi considerava suo padre nel modo in cui si considerano i padri: forte, adulto, incazzoso, minaccioso. E lui mi sfidava, forse per accendere la mia forza.

   

Sento di annegare, di soccombere, di scivolare giù. E la mano che mi tiene, è la sua. Se lui mi aiuta, io posso farcela

E poi non so cosa è successo, né quando. Mi sono ritrovato un figlio che mi considera anziano, fragile, sconclusionato, impacciato, inadatto. Se il suo istinto è questo, deve avere per forza ragione. Se fa così, nella sua inconsapevolezza del mondo, ma anche nella sua mancanza di complicazioni, vuol dire che è necessario. Vuol dire che come credevo di sentirmi non poteva essere la verità. Perché io pensavo di essere felice, anzi ne ero sicuro. E adesso ho capito che non è così, che sento di annegare, di soccombere, di scivolare giù. E la mano che mi tiene, è la sua. Se lui mi aiuta, io posso farcela. Se lui continua a guardarmi preoccupato, se non sparisco dal suo sguardo, io resto a galla. E forse le cose potranno perfino migliorare. E lui potrà finalmente, un giorno, tornare a occuparsi di altro.

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