I baci perduti

Alessandro Milan

Non ricordo l’ultimo bacio di mia moglie, la morfina la stritolava. Ora io bacio tutti, sempre

Un bacio, un bacio ancora. Il senso dell’amore di Otello e Desdemona sta tutto qui, nella richiesta di un gesto semplice e antico. Le nostre vite sono costellate di baci. Molti non li ricordiamo neppure, per esempio quelli di cui ci hanno ricoperto i genitori, appena nati. Alcuni li vorremmo dimenticare, se legati al ricordo di vecchi amori avvizziti, altri invece li rimpiangiamo. Sono i baci mancati, che avremmo voluto dare ma che ci sono sfuggiti per sempre. Io ho un elenco sterminato, di questi ultimi. Il più bizzarro, anche se sono passati trentacinque anni, mi fa ancora male. Era il 10 giugno 1984, una domenica pomeriggio, avevo tredici anni e me ne stavo steso sul tappeto di casa, in lacrime. A fianco due dei miei tre fratelli gioivano e saltavano. Il mio dramma si era consumato a un migliaio di chilometri di distanza, a Parigi, ma lo schermo della tv me lo proponeva davanti agli occhi. Il mio idolo tennistico John McEnroe aveva appena perso la finale del Roland Garros contro Ivan Lendl, odiato da me e osannato dai miei fratelli. Io piangevo, loro non stavano nella pelle. Piangevo perché quella dannata finale era il sogno di McEnroe, e un po’ quindi anche mio, piangevo perché SuperMac stava dando una lezione a quel ceco con i dentoni da coniglio: due set avanti, un break avanti nel terzo. E’ fatta, John. Poi, il tracollo. Dopo l’ultima volée di McEnroe in corridoio, avevo iniziato a singhiozzare. E avrei voluto un teletrasporto, per andare accanto al mio eroe che affondava i ricci nell’asciugamano e dargli un bacio. Delicato, sulla fronte. “Forza John – gli avrei detto – ci risolleveremo”. Quel bacio mancato ancora mi pesa. Come altri, d’altronde, che nella vita non ho potuto dare. Il più delle volte è accaduto per timidezza: alle elementari ero innamorato di Silvia, ma quando venne da me e si dichiarò, io la dirottai dal mio migliore amico: “A lui piaci tanto”. A tredici anni, in Irlanda, appena vidi Katia rimasi folgorato: per tre settimane non ho pensato ad altro che alla possibilità di baciarla. Finì che baciai a lungo il cuscino, di notte, senza avere il coraggio di scambiare con lei nemmeno due parole. Però ricordo ancora i suoi capelli, le sue labbra, il suo cognome, come si conviene agli innamoramenti seri. A volte i baci mancati hanno un altro nome: due di picche. Ne ricordo uno su tutti: a 25 anni mi ero preso una sbandata per una ragazza che esibiva una cascata di ricci incantevole e l’avevo invitata a una festa con il chiaro intento di colpire. Lei, che aveva capito benissimo, era stata tutta la sera seduta, immobile, con l’espressione più incazzosa di un rottweiler a cui avevano pestato una zampa. Dopo due ore, era andata a casa salutandomi con una stretta di mano, come fa il mio ragioniere quando mi riceve per compilare il modulo per le tasse.

 

Ci sono poi baci mancati che procurano dolore, per me due in particolare: quello di mio padre che sul letto di morte, mentre il prete gli somministrava l’unzione degli infermi, aveva cercato di baciare la fede al dito di mamma. Non c’era riuscito, le forze non lo sostenevano più, e allora si era accontentato di sfiorarle l’anulare sinistro. Poi, il bacio mancato di mia moglie Francesca, portata via da un cancro a 42 anni. Era dicembre del 2016, e non ricordo assolutamente l’ultimo bacio che mi ha dato lei, visto che negli ultimi dieci giorni era stritolata dalla morfina.

 

Da allora mi sento un po’ come Amma, la santona indiana che gira per il mondo dispensando abbracci. Io bacio. Se posso, non nego a nessuno il gesto che più di ogni altro simboleggia il bene o l’empatia verso il prossimo.

 

Con i miei due figli, Angelica e Mattia, mi sono anche inventato un gioco: faccio credere loro che tengo la conta dei baci da quando sono nati. Per cui ogni tanto mi avvicino, li chiamo con i nomignoli preferiti, Cipolla fritta o Patata lessa lei, Lungagnino o Spigolino lui, li bacio e conto. Che ne so… un milione ottocentosettantasettemila quattrocentoventiquattro lui. Due milioni duecentoventiduemila trecentoventuno lei, e all’inizio è stata dura far capire a un Mattia corrucciato che lei era più avanti perché è più grande, dunque ho iniziato a contare prima. Non so se credono a questo gioco, probabilmente fingono per darmi un contentino. Io però li bacio, e continuo a contare. Verrà prestissimo un giorno in cui Angelica decreterà che le mie labbra sulla sua pelle le fanno schifo, e allora continuerò con Mattia. Presto, con lui, taglierò un traguardo importante: due milioni di baci.

 

In quel numero sta il senso del romanzo della mia e delle nostre vite: ci sono state pagine meravigliose e pagine brutte. Io però non ho mai smesso di baciare e di contare. Sapendo che finché potrò baciare, sarò vivo. Se invece smettessi, comincerei a morire. Dentro, ancora prima che fisicamente.

 

Alessandro Milan è un giornalista. Il 10 settembre esce in libreria “Due milioni di baci” (Dea Planeta)

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