Il manifesto del film "La Paranza dei Bambini" (Foto prese da Facebook)

La paranza dei figli senza padri

Massimiliano Coccia

Il loro dolore ha il prezzo di un paio di Nike e riguarda anche noi borghesi. Il film tratto dal libro di Saviano

Scendono e risalgono, vagano per la città in gruppo sotto dei cuori metallici che li portano in posti senza senso. Hanno soprannomi buffi e crudeli, sguardi affilati come una vendetta. Sono pronti a tutto non si sa bene per cosa, sono pronti ad uccidere senza aver compreso per quale motivo valga la pena vivere. Per loro il dolore ha il prezzo di una scarpa Nike, di un cappello con la visiera esagerata o di un tavolo dentro una discoteca. Sono i figli senza padre de “La paranza dei bambini”, diretto da Claudio Giovannesi e scritto da Roberto Saviano, Maurizio Braucci e lo stesso regista che ha vinto l’Orso d’argento a Berlino proprio per la sceneggiatura.

 

La storia di Nicola, di Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò che si sviluppa nel film è la storia di una mandria di figli che scelgono di essere criminali e lo scelgono perché dei loro padri hanno evidente pena. Che autorevolezza può avere un padre in una società che ha reso la classe media cattiva e ostile e il sottoproletariato avido di ricchezza? Come può un figlio rispettare un genitore che non riesce a garantire l’acquisto di un motorino nuovo o di una maglia di marca? Per questo la storia dei paranzini del film non è qualcosa che non ci riguarda, perché intorno a questi figli perduti c’è la Napoli sempre più avviluppata dal sistema criminale camorristico che vede pizzo, violenza e sfruttamento in crescita, ma c’è anche il riflesso della società borghese che ha sostituito le presenze con l’acquisto di oggetti di secondo consumo.

 

Il lamento di Nico, il protagonista, è il grido di dolore di intere generazioni che cercano disperatamente un padre che li accolga, che li fermi nella loro scalata al cielo. Perché la vita di questo serraglio di adolescenti nati nel nuovo millennio somiglia a un videogame, in cui la matrice criminale diventa esclusivamente lo strumento del superamento dei livelli. Prendere in mano una pistola nella realtà ha un peso enorme, peso che questi figli non avvertono: sparare, ammazzare, uccidere, vivere, amare, lottare, fare l’amore, trovare lavoro, accudire una madre, non fa differenza, perché se niente conta tutto conta. 
Questi figli così feroci ci raccontano che esiste un mondo di mezzo popolato da una nuova gerarchia familiare, dove il padre è colui che deve garantire la dignità dell’avere, visto che da tempo non può più garantire quella dell’essere.

 

 

Roberto Saviano assieme a Maurizio Braucci e Claudio Giovannesi vincono a Berlino l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura


Nonostante la vita di questi figli sia contornata dagli smartphone, dai televisori ultrapiatti, dai tessuti aerodinamici, la dimensione temporale che più si addice a queste vite è il Medioevo, sia per il modo in cui l’assenza del padre si sviluppa e sia perché l’aspettativa di vita di un paranzino è di 24 anni. Ma che guerra combattono questi figli senza padri? Che cosa anima quel fuoco interiore che ogni ragazzo si porta dentro? La risposta è semplice: la stessa guerra che combattiamo noi che un padre nel bene e nel male ce lo abbiamo avuto. Perché a un certo punto, dismessi i panni degli osservatori esterni, diventiamo tutti Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O’Russ, Briatò, perché questi ragazzini napoletani hanno il pregio di farci guardare allo specchio e renderci nudi davanti al nostro essere orfani.

 

Neanche Napoli, sinuosa, ancestrale alle volte primordiale, che scorre nel film riesce a farci dimenticare che se non siamo figli non possiamo diventare padri, se non ci riconosciamo soccombiamo al nostro esistere. I paranzini di questo film non si affidano a niente e a nessuno, non alla religione, né al caso, solo alle radici decadute di un’appartenenza e di una giustizia sociale impossibile da raggiungere manu militari, il sangue che scorre nelle loro vene è nuovissimo e la ferita dell’assenza del padre non diventa motivo di analisi ma solo motivo di guerra.

 

Il cinema ha spesso raccontato l’estinzione del padre, nel neorealismo i padri erano stati relegati a ruoli marginali, non centrali nella costruzione umana dei protagonisti, esseri che disperatamente osservavano quello che accadeva alla vita dei figli senza prendere parte attiva, ma in questo tratto di storia la potenza espressiva dell’assenza ci scuote e infastidisce perché non siamo diversi da Nico, non siamo migliori di Lollipop o Briatò, non siamo più giusti degli altri: il loro desiderio di ricchezza così feroce li colloca fuori dalla costruzione storica, fuori dal complesso paradigma della felicità e ci fa sentire nella nostra borghesia rarefatta come loro, iscritti alla stessa anagrafe con lo stesso intatto desiderio di fuggire, di distruggere tutto e poi di ritornare per vedere come è andata a finire, per tornare a vedere se finalmente siamo diventati figli.

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